58 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO ricollegano più direttamente al Canto degli spiriti, ed il monologo di Odino è recitato da un coro; caratteristica interessante in quanto quest’espressione di un personaggio mitico attraverso una collettività anonima come il coro ci fa meglio intendere la visione universalistica che il Posàr ha dei suoi personaggi. In complesso tuttavia questa seconda parte segna già un bel passo via dall’astrattismo del volume precedente. Maggiore è il passo nella prima parte. Nella quale il nostro autore ha raccolto alcuni «Idilli», espressione scenografica primitiva, universalistica anch’essa al punto che i personaggi non hanno nome, sono «un uomo», «una donna», «un’altra donna», «un vecchio», e via di seguito, il loro dramma o la loro tragedia è fatta di elementi primordiali, il particolare esiste solo negli elementi di sfondo — ed è di. bella e spontanea iattura letteraria —, la azione quasi manca, vi ha largo sviluppo il monologo e c’è pure un coro o più cori (degli spiriti del mondo, degli spiriti del passato, delle lucerne spente, delle lucerne vive), i quali interloquiscono o commentano. Insomma, raccostando i due volumi de! Posàr, ben vediamo come in lui è nata la tragedia in modo non molto dissimile ? quello in cui la tragedia nasce in un popolo. Nella prefazione al volume il nostro autore difende la sua opera precedeui.-3 e parla delle sue ides sull’arte. Si dich-.ara idealista. Ma la poesia per lui «non deve porgere godimento solo a quei pochi che hanno la fortuna di saper intendere; essa deve illuminare,' «altare le ma“se». Però la conclusione è un po’ strana, il rinnovo (biella poesia sarebbe col «farla Unita con ver« <; con rime», di cui il Posàr si sente «-azio fino alla nausea». A parte questa conclusione estremista, che forse non vale la pena di discutere perchè troppo soggettiva, rileviamo che il Posàr è per la poesia di massa e, quindi, per il teatro di massa. «Le sensazioni momentanee, soggettive, variabili di attimo in attimo, da\ individuo a individuo», egli dice, «non contano più, non hanno quasi alcun potere, alcun interesse per noi. Quel che vale è l’universale, l’eterno, non già irrigidito, stereotipato ma anzi vivo, sempre trionfante, essenzialmente inalterabile». Questi concetti mi riportano ad un interessante volumetto di Nino Na-va, edito dal Guanda nel 1937 ed intitolato Poesia di massa. Nella prefazione allora il Nava scriveva: . . . «noi non desi- deriamo sopprimere il teatro, anzi lo vorremmo riportare alla sua dignità antica, liberandolo dalle commedie di vita borghese, riconferendogli quella austerità e religiosità che sole possono salvarlo e riportarlo verso le masse.» E, verso là fine del volume asseriva che il drammaturgo contemporaneo deve superare il concetto di fatalità proprio del mito delle tragedie antiche «cosi come quello della necessità individuale che ha dominato i capolavori dell’arte drammatica del medioevo; il suo mondo lirico deve reggersi sull’umanità profonda che, pure avvertendo le leggi del soprannaturale, valorizza la potenza e la libertà dell’anima umana». Ma non è questo quello che fa il Posàr. Non si può dire che sia un concetto di fatalità quello che domina i suoi idilli, ma di necessità individuale sì, necessità che impedisce un libero e cosciente processo psicologico nei vari personaggi. Comunque sia però nel campo della teoria, le pagine che il Posàr ci presenta, le si considerino saggi di arte nuova o saggi di arte che si ricollega profondamente con la tradizione, hanno dei pregi degni di rilievo, e la loro lettura si fa molto piacevolmente. Visioni chiare, limpide, cristalline, vivezza e bellezza d’immagini, sentimento vibrante, conoscenza delPanima umana coi suoi dilemmi, i suoi tormenti le sue fatalità; tutto questo troviamo nel secondo lavoro del Posàr, poeta per quanto scriva costantemente in prosa. Lavoro ch’egli ha voluto che fosse dramma, e dramma lo ha chiamato dopo d’aver oscillato fra esso ed il romanzo, incerto sulla forma letteraria da dare a ciò che gli «dittava dentro», ma che dramma non è nel senso comunemente dato a questa parola. Certo è uno sviluppo di quegli idilli che abbiamo or ora esaminati, con personaggi che hanno alcunché d’impersonale per chiamarsi semplicemente «una sposa», «un uomo», «una madre», «una fanciulla» ; e c’è pure il coro degli spiriti del mondo tanto caro all’autore che, per le sue funzioni, ravvicina anche que-st’ultima opera del nostro autore alle tragedie greche; e ci son altri due personaggi (ma non parlano per quanto sieno inclusi fra le dramatis personaej, «uno specchio» ed «una candela» che ravvicinano l’opera stessa alle fiabe sceneggiate (ma lo specchio, per esempio, è un personaggio importante perchè la fanciulla ha da lui parole e consigli come dal suo ebbe la matrigna di Fiordineve — ed il movente psicologico che ha creato il mito dello