26 PIERO STICOTTI la mattina incominciò la marcia verso Innsbruck, che durò cinque giorni. Avvilito per l’assoluta mancanza di denaro il Donaggio durante una breve sosta in un Villaggio dovette a malincuore sbarazzarsi di quel po’ di biancheria che la provvidenza gli aveva fatto trovare: dalla vendita ricavò settanta Kreuzer e potè sfamarsi. Prima dell’arrivo il comandante invitò ad uscire dalle file tutti i triestini e istriani, goriziani e dalmati (3). Il Donaggio e altri fecero i sordi, non così otto o dieci volontari, che un picchetto condusse in luogo più sicuro e di cui i compagni non seppero più nulla. Erano le dodici meridiane quando si entrò in città e una moltitudine sghignazzante accolse i garibaldini. Si partì con la ferrovia. Nella vettura del Donaggio si trovava fra la scorta un uomo del luogo; la moglie venne a trovarlo e dando un sigaro a ciascuno dei volontari li pregava di non far del male a suo marito, poiché aveva inteso dire che i garibaldini erano pessimi soggetti ! Dopo due giorni di viaggio furono fatti scendere a Vienna dirimpetto al Castello di Schoenbrunn. Di li raggiunsero un’altra stazione ferroviaria. Ma non si era ancora ricevuta la paga promessa: allora i prigionieri a protestare con urla, fischi e batter di piedi, un vero pandemonio, finché ottennero gli arretrati di tutti quei giorni di prigionia, i quali passarono ben presto nelle mani di venditori ambulanti. Ma dove si andava? Finalmente si seppe che sarebbero finiti in Croazia. Difatti dopo innumerevoli fermate giunsero a Zagabria, dove ricevettero cinque pani a testa, tanto cattivi che li vendettero poi a Sissek. Qui gli abitanti avevano loro preparato delle vivande, che buone o cattive i garibaldini scuffiarono a due palmenti, sdraiati a terra e attorniati da una folla di curiosi. Furono divisi per squadre e mandati qua e là nei vicini villaggi. La squadra del Donaggio ebbe l’ordine di marciare a Petrinia. Anche qui grande curiosità dei croati: qualcuno che sapeva un po’ d’italiano ricordava fatti dell’Italia del Quarantotto! Dopo un breve riposo si proseguì per Iacubovaz, ultima tappa. Usciti dal paese furono condotti in un prato chiuso da un cancello di legno, in mezzo al quale era una casa abbastanza grande, una specie di caserma. Non passò neanche un quarto d’ora che tutto il paese venne a vederli offrendo in vendita per pochi soldi una quantità di prugne e un eccellente slivoviz. Verso notte si aprirono le porte di quel casamento, che aveva due piani con uno stanzone per ciascun piano. Una metà dei prigionieri accompagnati dalla scorta militare (la quale non aveva divisa, era scalza e solo munita di un fucile a pietra) andò a raccogliere la paglia per i giacigli. Chiusi poi a chiave dormirono al buio, ma le prime notti furono disturbati dalle grida che si scambiavano le sentinelle. Il rancio se lo facevano da loro: si andava a fare la compera dei viveri nel paese vicino, per turno e sotto scorta. I contadini continuavano a vendere dell’ottimo burro, prugne e slivoviz e del pessimo pane. Era proibito di uscire dal recinto, ma pure di quando in quando si riusciva a evadere coll’aiuto delle famiglie dei contadini, che dimostravano simpatia verso i prigionieri. Per iscacciar la noia estenuante un vecchio volontario di nome Emilio Fontana, il quale agiva in una compagnia equestre, buonissimo uomo allegro e ingegnoso, col quale il Donaggio sin da principio aveva contratto dimestichezza, ebbe l’idea di fabbricare delle carte da giuoco, e il Donaggio lo aiutò. Fatti due mazzi, uno lo vendettero per poter bere un bicchierino. Poi col permesso del tenente d’ispezione si misero a fare, con minor fortuna, ì la-