Un orso, con un grosso collare e una solida catena, veniva assicurato a un palo, fissato a terra, lasciando all’animale libertà di muoversi per alcuni metri all’in-giro. I cacciatori si avvicinavano allentando il guinzaglio ai loro cani, gli stessi che servivano nelle cacce dei tori. I cani si avventavano allora contro l’orso mirando a mordergli gli orecchi. L’orso si difendeva a unghiate e a morsi e, nella lotta, sarebbe certamente riuscito ad aver ragione degli avversari, ma, quando gli riusciva di addentare un cane, intervenivano i cacciatori, in funzione di cavacani, e gli ficcavano fra i denti e nella bocca certe lunghe palette di legno obbligando così l’orso a lasciare la presa. Questo esercizio non costituiva pericolo per i cacciatori ne’ per il pubblico perchè l’orso, legato come era, non poteva nuocere; ma trovo, il venti maggio 1607, registrata la morte di Giorgio Emo, ucciso da un orso che egli teneva in un magazzino, ai Santi Giovanni e Paolo, per servirsene nelle cacce. L’orso fece la sua vendetta infliggendo, con le unghie e coi denti, al suo padrone, trentacinque ferite. Chiudendo questo argomento delle cacce, ricorderò che una grande caccia di tori, all’uso di Spagna, venne fatta nel 1785 in campo di San Polo, col concorso di due autentici toreros, di passaggio a Venezia. Ai due spagnoli si aggiunse un amatore veneziano, ma la caccia fu disgraziata. - 145 La Repubblica di Venezia-e lo Sport 7