430 AZZO RUBINO le gemme purissime della melodia del casto Bellini, ultimo figlio degli Elleni, l’opera, ossia l’unica espressione della musicalità italiana, non fu che l’indice d’un doloroso fenomeno di viltà di coscienza, che accettò gusti ed espressioni esotiche per la semplice ragione che non aveva più gusto proprio ossia atteggiamenti di proprie aspirazioni tendenze e desideri. L’impeto di liberazione dallo straniero, generante il gran moto del risorgimento nazionale, fu da principio più che altro un impulso dell’istinto cieco, un volere oscuro. La coscienza nazionale lo rappresentò quindi allo stato oscuro e popolaresco dell’improvvisazione e della cieca ebbra forza d’una ritmica d’improvvisazione. I musicisti di quel tempo sono tutti e soltanto ritmo come impulso cieco, violento della volontà passionale. Che altro significa l’enorme passionalità bruta di Donizetti e di Verdi e il loro amore per Hugo Schiller e Dumas e per quel-l’alfìerismo crudo dei loro libretti? Nessun paese, come l’Italia, doveva esser vittima del romanticismo confuso e sentimentale e rompere e obliare in tanta penombra, fumida di passioni, le più sacre tradizioni. L’opera di Verdi è sacrosanta e venerabile, ma è arte inferiore. L’Italia si è bensì resa padrona della propria libertà di vita, ma ha ancora la coscienza schiava degli stranieri. Siamo ancora ben lontani dall’avere una musica nostra, e se l’arte melodrammatica continua a cantare non più epicamente, ma più familiarmente la passionalità e perciò continua ad essere ancora viva (Mascagni, Puccini ecc.), la musica pura porta legna ai boschi tedeschi. Le nostre foreste delle Alpi e degli Appennini, i boschi di Palestrina restano intatti e la divina anima di Frescobaldi è obliata dagli italiani, come per tanto tempo fu obliata l’anima immensa di Dante». Nel 1914, due anni dopo questo acre bilancio che conserva ancora la sua attualità, Smareglia cantò epicamente, sollevò ondate di entusiasmo, fece scattare in piedi una folla plaudente e osannante, ma tutto finì alla superfice: l’Abisso passò in scaffali e cassetti perchè non si voleva che la redditizia espressione del declinante romanticismo venisse travolta e recasse danno all’industrialismo artistico. Questa verità non è una trovata d’oggi, ma fu intravista da Agostino Cameroni nel 1914 stesso, quando egli allo Smareglia opponeva la fortuna dei «soliti geni, o quasi, consacrati dalla moda e acquisiti da tempo alla speculazione commerciale di editori e di impresari». L’Abisso riassumeva e attuava il pensiero dei precursori italici, coronava il programma boitiano, ma tuttavia l’opera non viene rappresentata perchè «fuori repertorio», priva cioè di artisti preparati e richiedente il maggior costo della preparazione. Il popolo italiano deve dunque limitare le sue esigenze di fronte alle imperiose leggi della cassetta utilitaria, la quale non s’arrende nemmeno alla constatazione di Adriano Lualdi, affermante la rara virtù dell’opera stessa di chiudere con bilanci attivi. Ma Smareglia risorgerà tuttavia perchè il suo testamento artistico dice: «La voce della mia coscienza mi ripete e mi assicura che l’opera che io lascio ha un tal valore artistico, almeno paragonato alla produzione dei miei contemporanei, che per forza di sua natura tardi o tosto verrà riconosciuta, riconoscimento che sarà la condanna di tante persecuzioni». Ce lo auguriamo. AZZO RUBINO