GABRIELE D’ANNUNZIO E GLI IRREDENTI 295 contro la mediocrità del presente necessariamente prescindono da quegli elementi, in atto o in potenza, che al Risorgimento diretta-mente non si riferiscano. Più che una fase europea della nuova storia italiana, l’irredentismo rimane quindi per lui, «stricta litera», una fase non compiuta del Risorgimento, dal quale l’irredentismo ripete le finalità unitarie, le tendenze politiche, le ragioni morali e le stesse forme esteriori. Ciò spiega perchè nell’opera letteraria del Carducci la causa di Trieste e di Trento trovi la sua espressione più alta nelle pagine dedicate al martirio di Guglielmo Oberdan: ultimo eroico episodio del romanticismo del Risorgimento. Per impeto e per passione, per stilistico vigore e per intima concitazione ben inferiori a quelle pagine sono gli archilochii del popolarissimo «Saluto italico» e le occasionali terzine scritte per l’inaugurazione del monumento di Dante a Trento. Con l’accenno a Trieste «fedele di Roma», contenuto nell’ode a Victor Hugo, sono questi i due soli componimenti poetici d’ispirazione irredentistica lasciatici dal Carducci. Perchè essi non reggano il confronto con le grandi odi storiche, nelle quali l’estro del poeta raggiunge altissime cime, ci sembra d’aver detto, onde nessuna contraddizione sussiste tra il sentimento irredentistico del Carducci e la sua estrinsecazione formale. Diverso è il caso di Gabriele d’Annunzio. La sua fortuna letteraria nelle terre irredente subì la sorte che essa ebbe nelle altre pi’ovincie italiane. Il dannunzianesimo, come forma e come idea, come ricupero di valori antichi e come creazione di nuovi, durò fatica ad aprirsi una strada in profondità. Sulle generazioni, nate intorno alla metà del secolo e vissute nel compromesso fra romanticismo e classicismo, la presa fu scarsa; minimo, per non dire nullo, l’ascendente estetico e spirituale esercitato dallo scrittore. Coloro che stanno oggi sui cinquant’anni ricordano come, anche fra i giovani d’allora, il dissenso rispetto al dannunzianesimo fosse sostanziale ed acuto, e proveniva, credo, dall’esercizio di una critica che, per soffei’marsi eccessivamente sugli elementi secondari, finiva col perdere di vista i caratteri essenziali dell’opera poetica. Quantunque le distanze sensibilmente si fossero accorciate dopo l’apparizione delle Laudi e il trionfo della Figlia di Jorio, il dannunzianesimo reclutò, fino alla guerra, nelle terre irredente solo pochi iniziati, fra i quali sono da ricordare, come sintomo di una maturità intellettuale già in atto, il massimo scrittore giuliano vivente, Silvio Benco, ed un nobile poeta dalmato, il Cippico. Tale restrizione va intesa nel campo letterario: chè in quello politico l’irre-