GABRIELE D’ANNUNZIO E GLI IRREDENTI 311 Delle tragedie dannunziane la Gioconda venne rappresentata al Verdi davanti ad una folla enorme l’8 maggio, preceduta da una imponente manifestazione, non priva di significato politico, al poeta. Il 10 andò in scena la Città Morta e due giorni dopo la Francesca, che fu replicata il 14 e il 17 maggio. In complesso le accoglienze tributate dal pubblico all’opera d’arte — calorose, ma non sempre egualmente convinte — rimasero al disotto dell’entusiasmo col quale i cittadini circondarono il poeta durante il suo breve soggiorno triestino. Di tale entusiasmo rimane storica traccia nel banchetto organizzato 111 maggio in onore di d’Annunzio dagli enti patriottici e culturali della città. Gioverà trarre dai giornali dell’epoca la cronaca particolareggiata. Portarono il saluto della città Attilio Hortis, Riccardo Pitteri e l’avvocato Consolo; in risposta, il poeta pronunciò uno dei suoi più felici discorsi, mascherandone con tanta stilistica perizia la sostanza irredentistica da rendere possibile al «Piccolo» di pubblicarlo integralmente. Eccolo: Grazie e onore a colui che con tanto animosa dottrina discoprendo le vestigio occultate degli spiriti magni riafferma di continuo la tradizione del genio latino nella terra di Rafael Zovenzonio e vi tiene di continuo acceso un profondo focolare di coltura nazionale. Grazie ed onore a Riccardo Pitteri, al poeta che infuse nei suoi carmi il miele selvaggio cui Vergilio gli insegnò raccogliere nelle selvette rispecchiate dal Golfo, al poeta che riudì in suo cuore la voce rude dell’antico popolo istriano alzata a rivendicare contro il barbaro le libertà. Un saluto anche all’assente, a Giuseppe Caprin, al felice prosatore alpestre e marino, che seppe chiudere nei suoi libri la vita fremente e la morte impietrita, circonfondere di colori, di luci, di ombre, di soffìi, di ogni naturale mobilità le reliquie inerti dei compiuti destini. Grazie a tutti voi, amici generosi, tra i quali veggo altri miei fratelli d’arte diletti cui m’è dolce poter esprimere il mio accresciuto amore, poi ch’essi con sì nobile schiettezza m’hcinno tesa la mano che qui lavora soccorre e combatte per le belle idealità sacre alla devozione dell’intera nostra vita. Veramente, se valga la costante fede proseguita in mezzo a tanto vacillare e oscurarsi della coscienza italiana; se valga l’aver conservato un culto a quella indistruttibile parola di Dante, intorno a cui la nostra anima ode romoreggiare il flutto del Quarnaro come mtorno a un granitico segno; se valga l’aver levata la voce nelle ore