296 GIUSEPPE STEFANI dentismo, libero anche in questo caso da preoccupazioni che non fossero di carattere nazionale, non tardò a riconoscere in Gabriele d’Annunzio l’interprete più appassionato e più alto delle proprie speranze. Gabriele d’Annunzio fu, infatti, il poeta deH’irredentismo. Come molti dei suoi contemporanei, egli ebbe vivo e profondo il senso del dramma che si svolgeva ai confini, nell’impari lotta fra un gruppo di uomini inermi e la forza armata di un impero. Ma come pochi dei suoi contemporanei intuì l’epilogo inevitabile di questo dramma, che non potendo esaurirsi in se stesso, era fatalmente destinato ad aprire un nuovo ciclo della storia d’Italia. Dell’irredentismo sentì e raccolse l’ardente e amara poesia, sollevandola, con ineguagliata potenza, sui vertici del canto. Conviene però aggiungere che per lui, italiano ed artista già uscito dal clima del Risorgimento, il problema vitale della nuova società italiana non è più quello della libertà in astratto, ma quello della potenza in concreto; onde l’irredentismo, così ricco di elementi esplosivi, è da lui concepito e sentito unicamente come un aspetto particolare di questo problema, come una premessa per la sua soluzione. Egli è che Gabriele d’Annunzio nasce alla luce delle lettere come poeta politico. Nel suo primo componimento, dedicato ad Umberto I, squilla già un grido di battaglia e di vittoria: «Vinci, o Re prode». A sedici anni fa sua la missione di «odiare a morte i nemici d’Italia e di combatterli sempre» e sogna il destino di Bo-naparte. A venticinque, già illustre nell’arringo delle lettere, afferma, con frase di carducciana reminiscenza, di non essere e di non voler essere «un poeta mero». Se Andrea Sperelli pronuncia la turpe frase contro i caduti di Dogali, d’Annunzio li esalta in un’ode, che meriterebbe d’essere ricordata. Questa cadenza politica, quest’ansia di gloria nazionale accompagna tutta l’opera del poeta. Anche quando l’anima dell’artista naufraga nel sensualismo o insegue sul filo teso della fantasia le impossibili chimere d’un egotismo estetizzante, la coscienza civile reagisce secondo l’istinto più profondo dell’italiano e del patriotta. Le lubriche pagine del Piacere sono coetanee al maschio appello dell’-Armaia d’Italia; l’impeto delle Odi Navali s’impenna contro il collasso crepuscolare del Poema Paradisiaco. Fittizio ed enfatico può certamente, oggi più che mai, apparire l’eroismo di Ruggero Fiamma, di Claudio Cantelmo o di Corrado Brando; viziato di fatuità e d’estetismo «l'ideal tipo latino» che impersonano, labile e sterile il sogno di potenza che perseguono. Ma qualche cosa di vitale c’è nel fondo della loro passione, che postula