422 AZZO RUBINO mento umano fra i tanti ¡strumenti meccanici: cosi la musica, che con Wagner si era vantata di spingere il dramma alla rivelazione dell’ultima verità, ne smarrì le persone dentro un poema sinfonico ed il solo vero trionfale personaggio del teatro nuovo fu l’orchestra». Quest’elemento ebbe allora la pretesa di sostituirsi alle funzioni del coro greco: non vi riuscì per la sua impotenza di evocare immagini e, per di più, travolse la lucidità dell’azione subordinando a sè stessa anche le figure operanti nel dramma, costrette a gutturare parole inintelligibili. Il nostro senso razziale italiano e il concordante pensiero di Boito ci avvertono che Oriani diceva il vero, perchè ancor oggi, dopo che l’astro wagneriano ha da tempo compiuto il suo chiuso ciclo, sentiamo la nostra preferenza per le commozioni... belliniane. Ma Oriani ammoniva: «Ricordate il finale della Norma, paragonatelo a quello del Tristano e Isotta, e sentirete la tragica superiorità melodica di quello su tutta la prodigiosa fattura di questo: la frase della Norma nel proprio sviluppo sale inesauribile, è onda fiamma parola anima: è limpida afferrabile indimenticabile: il mondo la saprà sempre. Wagner capovolge la progressione di Bellini, ne fa un fiume, un torrente che straripa strugge soffoca s’interrompe. Calata la tela, acquetata l’orchestra, io pensavo ancora con orgoglio italiano a Bellini». Oriani, l’ultimo dei grandi pensatori solitari che del Bello musicale ebbero l’intuizione razziale e non furono esteti scolastici, affrontava così da solo tutto il pubblico italiano affetto da inesauribile straniomania wagneriana con tendenza a cronicità per assuefazione. Ma nemmeno sono lusinghiere le sue parole sul conto di Verdi in quanto nel grande vegliardo egli vedeva un concluditore del passato, incapace di fissare lo sguardo in quell’avvenire italiano che pur doveva sorgere giusta le antiche profezie del Mazzini. «Verdi, il superstite dell’immortale quadriglia, ricorregge colla mano tremula le opere della giovinezza (Simon Boccanegra), come un vecchio capitano ama riforbire egli stesso la spada che non può più cingere». Una critica mordace contro l’insufficenza della Traviata finisce così: «Perchè Verdi, obliando tutto il proprio ingegno, ha scritto il dialogo finale dei due amanti con quella volgare stampiglia di frasi, sciupando una scena che sarebbe stata sublime in mano di qualunque altro, e, stretto dalla necessità di una bella romanza, è andato a cercarla nell’ultimo atto del Trovatore? Perchè Verdi è così spesso un altro che scrive della musica da capobanda senza testa e senza cuore? Perchè questo fatale convenzionalismo che deforma la bellezza e mutila l’arte; perchè essendo grandi non si osa di essere liberi, e Verdi viene anch’egli con la turba dei minori e degli eguali a curvare la fronte incoronata sotto certe forche caudine? Perchè mai, quando Wagner le ha comunque rovesciate con un cozzo superbo, i critici le rialzano e artisti come Verdi vi ripassano?» E la conclusione per la sua complessa produzione artistica è questa: «Verdi è stato un genio dopo l’Otello e il Falstaff, così meno belli del Rigoletto, solamente perchè egli seguitava a scrivere quando i pochi che lo avevano sempre superato erano già morti. Tutte le aristocrazie d’Europa sorsero ad applaudire l’ultima opera del vecchio grande maestro, mentre il popolo, più sincero, non ne imparò invece alcun motivo e seguita a cantare le proprie canzoni anonime».