GABRIELE D’ANNUNZIO E GLI IRREDENTI 299 L’«Adriatico sacro», il «libero, triste» Adriatico ripropone dunque alla Patria il problema della sua potenza. Questa giuntura fra il mondo artistico del poeta e il suo istinto politico trova in un episodio della vita giovanile del d’Annunzio netta evidenza. Alludiamo al noto viaggio compiuto nell’estate del 1887 in Adriatico, assieme con Adolfo de Bosis. Imbarcatisi sul piccolo pànfilo «Lady Clara», i due poeti s’erano proposti di risalire da un porto dell’Abruzzo l’Adriatico tíno a Venezia e di qui passare a Trieste, a Zara e, di rada in rada, d’isola in isola, a Spalato, a Se-benico, a Ragusa, fino alle Bocche di Cattaro. Questa «favolosa navigazione» — confessa il d’Annunzio — era «anche molto letteraria», essendo il poeta «in quei giorni invasato dagli spiriti del divino Annibai Caro». A bordo, l’inesperto nostromo arso e chiomato come un barbaro, fumava tabacco di Dalmazia, alla palpitante ombra della vela latina, e pensava forse la sua bella in Dignano e il vino di Dignano che ha il profumo delle rose di maggio. Il poeta stesso ricorda che «quell’avventura lirica» fu «per circostanze speciali» cagione che egli si trovasse per qualche tempo in mezzo a gente di mare e che potesse portare nelle cose della nostra Marina quel medesimo spirito d’osservazione che avrebbe portato nello studio di un fenomeno d’arte. Tutti coloro che, anche superficialmente conoscono la biografia del poeta, sanno di qual natura fossero quelle «circostanze speciali». Sorpreso dalla bufera e spinto dal mare grosso verso la costa dalmata, il panfilo stava per naufragare, essendo il governo ormai sfuggito di mano agli inesperti nocchieri. Fortunatamente la R. N. «Barbarigo», che navigava in quei paraggi, accorse in aiuto, issò a bordo l’imbarcazione e ricondusse a Venezia i due poeti. In un articolo pubblicato l’anno seguente nella «Tribuna» e divenuto poi prologo del libro sull’Armafa d’Italia, il d’Annunzio rievocava quelle ore così: Sul mare, che aveva veduto fiammeggiar tragicamente la ,,Pa-lestro" del Cappellini e aveva inghiottito il „Re d’Italia” con Faà di Bruno e co’ Suoi quattrocento eroi raggiavano ora le stelle come occhi amanti, benignamente ... Noi, sul casseretto, vegliavamo con l'ufficiale di quarto. Il ragionamento cadde sul fatto di Lissa. Il comandante del „Barbarigo" era stato presente alla battaglia; egli aveva veduto il „Re d’Italia” sommergersi con tutte le sue bandiere inalberate. L’episodio mirabile ci risplendeva nell’immaginazione: vedevamo Faà di Bruno dal suo palco di comando uccidersi con un colpo di pistola e il cannoniere Pollio, mentre il naviglio colava a fondo, dar fuoco a un cannone ancora innescato, gridando: Ancor