GABRIELE D’ANNUNZIO E GLI IRREDENTI 329 «Sapevamo che le parole di d’Annunzio erano una licenza poetica — ch’egli ripetè anche nelle Faville del Maglio — ma ne provammo piacere ed orgoglio, pur lasciando trasparire sui nostri volti un’espressione d’incredulità. Ma egli ci confermò ch’era stato proprio così e che perciò egli si considerava un po’ nostro concittadino, essendo nato sulle acque dell’Adriatico. «Ed adriatica era la tragedia che nella notte aveva letto ai due attori della «Stabile». Ad Eveiina Paoli aveva serbato una parte in cui essa avrebbe potuto rivelare tutta la sua sensibilità artistica e tutte le risorse della voce, dalle inflessioni incomparabili specialmente nella passione. «Con la Nave intendeva portare sulle scene italiane un fatto unico nella storia: le vicende d’un popolo che, costretto a rifugiarsi su poca melma appena emergente dal mare, ricomincia la sua vita dal villaggio lacustre degli avi remoti e, portando la patria sul ponte della Nave, riprende il cammino di Roma e fa dell’Adriatico e dei mari del Levante un solo mare italiano. V’è qualcosa anche per voi di questa sponda, nella „Nave” — concluse, e stringendoci la mano promise di ritornare ancora a Fiume perchè, lo ripetè, si sentiva fiumano. E mantenne la promessa. «La sera assistè da un palco alla recita dell’«Orestiade». Erano con lui Cambellotti e Falena. Fu festeggiatissimo, ma rifiutò le visite d’omaggio. «Partì la mattina del 25 ottobre per Ancona col «piroscafo bianco» della società ungaro-croata. Andammo sulla riva per salutarlo, ma s’era già chiuso nella cabina. Pregammo Falena di consegnargli il nostro ricordo: un ramo strappato da un alloro del Giardino pubblico, legato con un nastro dai colori fiumani. Falena ci portò il ringraziamento del poeta per il «lauro amaro». «E forse anche da quella stessa pianta furono schiantati il 12 settembre del 1919 i rami che i fiumani lanciarono nell’automobile del Liberatore e quelli ch’egli la mattina del 2 gennaio del 1921 de-pose sulle bare dei caduti nel Natale di sangue, coperte della bandiera del Timavo. «Ai curiosi ansiosi di particolari sul colloquio con d’Annunzio, mio fratello Silvino — chissà perchè — ripeteva ch’egli aveva promesso di ritornare fra noi per ispirarsi alla nostra libertà comunale onde trarre l’argomento d’un poema eroico. E, per burlarsi degli autonomisti ai quali il comune era patria, lo scrisse anche nella «Giovine Fiume», in quell’arguta cronaca delle sedute del consiglio comunale ch’egli firmava «Filipeto». E fu inconscio profeta».