LA XIII MOSTRA TRIESTINA D’ARTE 441 fra questi sempre Adolfo Levier. Tutti conoscono la potenza lirica e la dinamica forza di questo robustissimo pittore. Oggi c’è di lui un gruppo di quattro acquerelli cbe non potrebbero sfruttare con più sicuro e redditizio intuito le possibilità di questa tecnica veloce e immediata. Guardate i verdi liquidi animati di quel bosco, le ocre brune e drammatiche di quella marina, le figurette agili e vive schizzate con due tratti di pennello geniali. Sfortunatamente le avare pareti non poterono accogliere un’opera ancor più sostanziosa: uno dei suoi magnifici ritratti, forse fra i più eccellenti di questi ultimi anni: «Ritratto di scultore». Ci sia egualmente concesso di accennarne qui poiché l’accesa forza delle carni, la plastica scolpita delle mani, la consistenza dei turchini dell’abito e la semplice ma mirabile inquadratura spaziale sono brani di fortissima pittura. Davanti alla quale si rinnova in noi il disappunto che questa autentica forza nostra non abbia ancora trovato in Italia la larghissima eco di consenso e di lode ch’essa da tempo seppe conquistarsi in terre straniere. Intuizione schietta e viva del tono troviamo anche negli acquerelli di Tonci Fantoni, nei quali desidereremmo soltanto un maggior rilievo formale. Incisivi invece e d’una felice ellissi coloristica gli accidentati paesaggi rupestri di Ramiro Meng. Artista d’elezione resta sempre Gino de Finetti che oltre a un sapiente disegno di soggetto omerico ci dà tre grandi nature morte tutte notevoli per novità d’incontri e modernità di soluzioni. Resa mirabile della materia, tanto nelle stridule note dei fiori cartacei quanto nelle saettature dorate dei vecchi legni. Migliore di tutte «Georgica» che nell’affrontamento di un pastorale quadro secentesco con una terrina di grosse frutta polpose presenta accenti di epica ampiezza. Due bei nomi della pittura triestina sembrano segnare il passo. Poiché Sbisà, squisito e perfetto nei disegni (ce n’è qui di cinquecentesca correggesca eleganza) nella figura dipinta è d’un convenzionalismo dolce e inerte, d’un grigiore cromatico astratto e freddo. E Stultus più brillante nel colore non è meno portato verso la cifra nota. Magnifica statua di carne è la sua «Portatrice», ma scultura colorata quasi, non pittura. Ha fondi geometrici che tolgono il senso della spontaneità e della freschezza: debole è l’espressione nei volti. Siultus e Sbisà sono artisti di valore che conoscono il nobile megere: ci permettano dunque questa franchezza che solo possono •‘'•ere la fiducia e la stima un po’ deluse. Non concedendoci lo spazio una più larga rassegna faremo a>icora qualche nome: quello di Sofianopulo, per esempio, il cui