Antonio Smareglia e il rinnovamento dell’opera italiana 421 tima voce razziale, passata inutilmente attraverso il pensiero di due romantici doloranti e di un soldato debilitato, urge ancora una volta alla porta d’un grande pensatore solitario: Alfredo Oriani. Il pensiero J’ Oriani Questi non è più un dolorante, è uno spirito tetragono, dalle idee massicce nette taglienti, che ascolta soltanto sè stesso. Come Mazzini e Leopardi parla a tutti e a nessuno, ma la sua parola non è dettata da ragionamenti o da analisi minuziose, interiori od esteriori, bensì sembra scendere dall’alto, noncurante delle opinioni altrui. E’ il primo che allarga l’esperienza del melodramma da Rossini fino a Verdi Bizet Puccini, ma egli non ne esce soddisfatto, pur lodando, qua e là, qualche opera. Demolisce Wagner e conclude scontento per la palese inanità d’ogni tentativo di rievocare la commozione melodrammatica, che definitivamente gli parve aver fatto il suo tempo. Di Wagner egli scriveva nel 1900, quando il fdoneismo italico, dimentico del dovere di combattere per il proprio primato artistico, ormai si genufletteva dinanti a quest’idolo, le cui strane musiche inutilmente pretendevano di suscitare in Italia una commozione. In verità Wagner non ha mai commosso, ha soltanto rievocato, col mito, la voce di quel personaggio superiore che Leopardi vedeva nel coro greco, la voce del fato, lasciandoci attoniti, sbigottiti, affascinati dal perdurante mistero dell'infinito. «Egli critico, ebbe subito più devoti che lui artista, e la sua intransigenza teutonica provocò in Italia ogni più ingiusta negazione del genio nazionale». «Mancava in lui la prima caratteristica del genio, quella inconsapevolezza della creazione, senza la quale l’arte non può davvero rinnovare i miracoli della natura. Temperamento gladiatorio, ingegno polemico, pensatore, critico, Wagner non aveva d’ingenuo che il proprio gran cuore: la povertà gli acuì la superbia e un’ambizione imperiale gli scoprì nei rivali un’inferiorità di condottieri soggetti al pubblico e venduti alla sua finanza. Tutti gli parvero falsi; il teatro solo poteva, come il tempio antico, annunciare una nuova religione, la musica soltanto compiere un’altra rivelazione; e poiché la vita non arriva a significare sè stessa nel dramma, la musica doveva dirne il segreto impossibile alla parola. Ed ecco l’errore del pensatore, che moltiplicherà poi i sofismi del polemista fra le violenze del critico e i colpi del gladiatore». Da tale errore di principio e dalla pretesa che nel dramma la musica avesse facoltà di tradurre in sè stessa il valore di ogni fede e di ogni parola coll’artificio dell’associazione d’idee promossa dal leitmotiv, Wagner sboccò in «un canto dialogato, lungo, fitto di spunti melodici, con intenzioni troppo brevi e frammentarie per essere sempre intelligibili. E anche quando nel-l’ascendere della passione il canto doveva librarsi lieve lucente abbacinante come una fiamma, egli lo mantenne sottomesso alla parola e pretese che significasse tutta la logica dell’azione ed avesse il valore dichiarativo d’una immagine». Sfuggì al Wagner l’impossibilità per la musica di discendere al livello delle arti figurative e sopratutto di evocare quelle immagini che spettano al solo poeta e trascurò l’assioma che «la musica fu e sarà sempre lirica e non esprimerà mai nè caratteri, nè situazioni, nè epoche, nè figure, nè la coscienza, nè la intelligenza, nè la religione di Dio, nè una qualunque altra». «Sul fondamento di questi errori egli precipitò il melodramma dalla scena nell’orchestra, riducendo il cantante a non esservi più che un istru-