180 BOLLETTINO BIBLIOGBAFICO la salute che ormai sente senza rimedio perduta — si augura che un giovane più forte più sano più fortunato riprenda la fiaccola che la mano vacillante sente sfuggire, e possa finalmente riscattare dal vizio e dalla miseria morale la patria e l’umanità intera. Con questo augurio termina il racconto: ma il lettore è convinto che il povero Artemisi non concluderà nella nuova terra più di quanto abbia concluso a Trieste: tutto il rinnovamento spirituale invocato non oltrepassa le generiche vaghe enunciazioni; e ormai conosciamo troppo il nostro eroe nelle piccole ostinate infelici guerriglie quotidiane contro il mondo e se stesso, per poter prevedere vittorie e conclusioni, se non «sublimi» come egli volentieri ripete, almeno serie e durevoli. No, nella stoffa del sublime, dell’eroico, del rivoluzionario il protagonista, malgrado ogni lodevole sforzo dello scrittore, non sembra tagliato. Ma non è nemmeno vero che tutte le pene che l’Artemisi si dà per migliorare, restino nel libro mera e vuota letteratura. Il protagonista è un giovane il quale è pieno, poveretto, dei difetti, delle ambizioni e delle miserie di moltissimi giovani. Nessun vero e grande vizio: ed è quello che quasi vorremmo vedere in lui, una certa grandezza nel male. Ma egli è immerso in un mare di piccinerie e di meschinità a cui fa da contraltare un orgoglio smisurato. E non vediamo, a esser sinceri, in che e perchè codesto orgoglio si giustifichi. L’autore pare si diverta a renderci quanto più possibile grottesco il personaggio; serpeggia per tutto il libro una spece di voluttuoso autolesionismo, un masochismo morale che certamente Bousseau gli potrebbe invidiare. Ma se il personaggio non è dicerto molto abbellito delle industrie del narratore, l’introspezione di quell’anima smaniosa di notorietà e di gloriola letteraria, dibattentesi fra le tristezze della carne e dello spirito, affondata nella palude del meschino e del volgare e bramosa d’aria pura e di luce, quell’anima dolorosa e senza speranza non può non commuoverci. Sentiamo in lei qualche cosa che ci disgusta, ma insieme proviamo una pietà che ci costringe a temere, a soffrire a tormentarci con lei. I difetti di questo racconto non sono certo nè scarsi nè leggeri: moltissimi romanzi di questi ultimi anni possono senza dubbio superarlo per sicurezza di lingua, per finezza di stile, per capacità costruttiva e formale. Non molti tuttavia possono interessare — o almeno m’hanno interessato — |Come la storia a volle enfatica a volte sgraziata, spesso pesante o manchevole o trita o affliggente raccontata da Giovanni Tummolo. Mi fu detto che il Tummolo è di educazione protestante e, se non erro, figlio d’un pastore evangelico. Ora egli respinge quella e ogni altra religione positiva: si dichiara «misti-cateista» e sul «misticateismo» (l’idea e la parola sono sue) scrisse un’operetta che anche qui, tempo addietro, s’è avuto occasione d’esaminare. Che gli argomenti addotti dall’inventore del nuovo credo fossero molto chiari, non mi sembra: ma la cosa non ha qui importanza. Interessa, invece, ed è una spia per intendere il romanzo, conoscere e l’origine religiosa e il temperamento messianico dell’autore. Lo intento educatore e il clima moralistico che tutto il racconto respira, sono peculiari dell’ambiente e degli spiriti protestantici. Ciò distingue questo da cento romanzi italiani moderni e gli dà una colorazione, un po’ pesa, un po’ quaresimalista e, se volete un po’ quacquera, ma cosi personale e sincera che non è questa la