276 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO movimento futurista, con l’avvento del fascismo al potere, cioè al governo della Nazione, ha esaurito la sua missione e può compiere anch’esso la propria conciliazione con le forze sane (ma sanel) della tradizione, classica o romantica che pur sia? Ecco un quesito che noi rimettiamo, per la soluzione, all’acume dei lettori, avendo noi impiegato tutto lo spazio disponibile nel rilevare le benemerenze del futurismo rispetto all’irredentismo e dovendo, se volessimo esprimere la nostra opinione sul quesito sopraccennato, andare troppo per le lunghe e investire problemi di critica storica ed estetica che esorbitano dal programma specifico della nostra rivista. Ferdinando Pasini ERNESTO ELIGIO DOLCHIERI — Il mandorlo a marzo — storia di una pianta umana, Udine, Istituto delle Edizioni Accademiche, 1939-XVII (pagine 167; L. 8). Chi ama gli studi sulla psicologia dell’infanzia o sulla così detta formazione della personalità, legga questo libro e vi troverà pane per i suoi denti. Vi è narrata la giovinezza di un «debole», come il protagonista si definisce da sè stesso (pag. 162); di un debole, però, della razza che già conosciamo dalla tanta letteratura romantica fiorita sugli esempi del Werther e di Jacopo Ortis; sono gli iper-sensitivi, i quali consumano ogni loro energia nel contemplare e descrivere sè stessi. Abulici, di fronte alle decisioni che richiedono coraggio e costanza; timidi, ma sempre concen-tratti in sè stessi, e pronti, malgrado la loro timidezza, ad assumere atteggiamenti di superiorità luciferesca, come questo Gaetano Cicogna (così 10 nomina l’autore), che, per interpretare uno de’ suoi momenti di ribellione, dice niente meno che questo: «avrei voluto afferrar per la cervice la folla vile che non si commoveva di me, e sbatterla, scuoterla, sino a che ne uscisse un grido più alto del mio muto», (pa. 165). La folla vile, perchè non si commoveva di lui, che, mentre i suoi coetanei, scoppiata la guerra di redenzione (l’ambiente del protagonista è una città «non ricongiunta ancora alla Patria»), s’affrettano a varcare 11 confine per arrolarsi volontari in Italia, promette dapprima di andare con loro, ma poi, nell’atto di prender congedo dalla mamma e dal babbo, mal resistenti allo strazio di staccarsi dal loro figlio unico, sente vacillare ogni sua risolutezza e ragiona: «Contro la forza bruta e violenta di un avversario, contro la malvagità inflessibile d’un mostro si può far conto sulle proprie forze; contro la bontà, no». Egli dunque cede e resta di qua del confine. (Sacrificio inutile. «Poche settimane dopo, come la rude mano del contadino piglia la cicala che sta cantando nascosta nel suo cespuglio, la coscrizione mi coglieva e mi spingeva errabondo per le vie della terra»). Qui finisce la storia di Gaetano Cicogna. Quello che avviene dopo, non importa saperlo o, almeno, non era il tèma che intendeva trattare l’autore. Egli ha voluto presentarci un «nuovo» esemplare del tipo. E l’ha fatto magnificamente. La novità consiste in una tara psichica che il protagonista porta con sè fin dalla nascita e che si viene via via esasperando nella lotta per la vita. E’ una «nevrosi d’angoscia», come «i medici la definirono», e si rivela in uno spasimo che ossessiona il disgraziato per le più piccole cause. Le apprensioni più inverosimili 1°