426 AZZO RUBINO purezza dell’ispirazione melodica; annunziò al pubblico italiano la nuova ideazione fin dalle primissime pagine della Falena, con un duetto tra Stellio e Albina, che da per sè solo è un capolavoro di sensibilità italiana. Verdi, dopo lungo silenzio, era arrivato coll’ausilio di Boito alla perfetta comprensione di ambienti e di tempi ed aveva cessato di adoperare l’or, chestra-chitarra, salendo ad alti fastigi di gloria col suo Otello, dove appariva impressa la sua potente personalità romantica sull’Arte rinnovata; Sma-reglia, negatore del decadente romanticismo, sentiva in sè la forza di porre l’idea musicale a sicuro fondamento di costruzioni bachiane e di illuminarla d’un colorismo orchestrale Ignoto al Verdi, tratto dalle ultime conquiste tecniche sulla tavolozza orchestrale, che Wagner e Strauss avevano resa ricchissima smagliante iridescente, capace di ulteriori infiniti sviluppi. Per questo sviluppo tecnico, che Boito riconobbe con le parole: «la tua orchestra è più ricca e più varia di quella di Wagner», lo Smareglia non avrebbe dovuto venir allineato tra i vacui epigoni del Wagner. Vi fu invece allineato da una sordida critica, la quale a sua volta fu abbattuta nel 1912 da Francesco Mali-piero con le parole: «Anche se si potesse troncare ogni rapporto con la musica straniera e si volesse partire dalle fonti della sola musica italiana, non si potrebbe cancellare l’influenza di Beethoven e di Wagner, perchè questi due titani della sinfonia esistono ormai nell’atmosfera musicale di tutto il mondo e le nuove generazioni posseggono una facoltà mancante ai nostri padri: quella di poter capirli». Ma l’allineamento tra i predetti epigoni fu una trovata delle solite congreghe utilitarie allo scopo di non far deviare il gusto dell’osannante e pagante pubblico da quelle cave d’oro che portavano i bei nomi di Aida, Otello, Cavalleria, Bohème ecc. Perchè mai rinnovare un gusto musicale che dava le più ampie prove di soddisfazione al contatto di questi schemi romantico-veristi? Perchè seppellire un passato che ancora.... rendeva? Dalla Falena Smareglia passò all’Oceana, confermando in pieno il suo programma d’Arte. Egli giudicò quest’opera il suo capolavoro benché il più grande critico dell’epoca, Luigi Torchi, torturato dalla confessione che in fatto d’opera «la nostra predilezione è vuota: anche la musica ostica e piccante non è più nulla per un palato così guasto», avesse definito il libretto un ospedale di paranoici. Torchi fu personalità compassata, di misurato giudizio, e anche in questa critica egli ci appare ancora ammirabile per coerenza con quel vuoto che non gli lasciava luogo a predilezioni e che gli faceva esclamare: «Barnum ha ormai sfruttato ogni genere, nessuno artista più di luil» Terribile ironia in uno dei maggiori giudici del melodramma italico, terribile confessione della mancanza d’ogni fede animatrice, e terribile specchio dell’epoca (1903)1 Oggi non si innalzerebbe al posto di giudice un uomo apatico che prepone Barnum all’Opera. All’audizione dell’Oceana a Milano assisteva invece un artista di grande fede, Gabriele d’Annunzio, e quando il meraviglioso lavoro toccò la fine, Egli esclamò: «è un tessuto musicale di tal continua e morbida dolcezza che vi avvolge in un sogno e si vorrebbe non fosse mai finito». Smareglia aveva dunque vinto. Ma ancora una vittoria, la suprema, lo attendeva a 11 anni di distanza. Era apparso a Parigi Claudio Debussy col Pelleas et Melisande e la gazzarra del 30 aprile 1902 lo rivelava chiaro sintomo d’un nuovo verbo.