LA DOTTA RAGUSA 281 rativa è d’un genere che noi sentiamo istintivamente come si trovi a suo posto a Ragusa, benché sarebbe fuor di luogo a Caen, a Magonza, a Durham. Qualunque ne sia la data, l’opera è perfetta, incomparabilmente migliore del gotico italiano, o dello stile gesuitico cosmopolita. Sopra le arcate sono finestre col consueto tentativo veneziano degli adornamenti reticolati. Il pregio dei tre piani diminuisce di mano in mano che si va più in alto. Eppure, dalla data, non sembra impossibile che l’arcata e i due piani che le stanno sopra, possano essere realmente della stessa epoca. Questo bel lavoro romanesco — gli diamo questo qualificativo a dispetto della data — fu compiuto nel 1520, quando quasi tutti, a mezzodì delle Alpi, seguivano le più brutte forme del rinascimento. Sicché tanta maggior gloria ne viene all’architetto che disegnò tale opera in quell’epoca. Ed è quindi naturale ch’egli fabbricasse la sua arcata dietro l’impulso del suo genio, ed aggiungesse poi le due file di finestre per deferenza alle due mode rivali dei suoi tempi. L’arcata presa isolatamente è l’ultimo anello d’una catena: essa prova che la conservazione delle buone idee architettoniche fino ad epoca sì tarda, non fu un semplice accidente. La dogana ci ricorda il palazzo, il palazzo ci fa ritornare alle forme essenzialmente romanesche della chiesa francescana. Tutto ciò comprova l’esistenza d’uno stile raguseo, d’ima tradizione romanesca non interrotta, la quale, se non potè completamente resistere all’invasione del pseudo-gotico d’Italia, mantenne però il suo posto di fianco all’invasore. Simili edilìzi, ora tanto rari, ci fanno deplorare gli effetti del terremoto e sospirare i tesori d’arte che deve aver distrutto. Se Ragusa nei suoi primi tempi conteneva una serie di chiese proporzionate alle sue arcate civiche, e si fossero conservate, essa potrebbe pretendere ad un posto eguale a 18 — Giuseppe Modrich. — La Dalmazia,