UNA VOLATA TRA I PALCHI 323 Dopoché, a Njegos, i cavalli ripresero fiato, la carrozza si rimise in moto. Non è facile descrivere l’aridezza assoluta di quei paraggi: non un albero, non una pianta, non un filo d’erba, per lunghi e lunghi chilometri: sassi, macigni, rigida roccia, altipiani squallidissimi. È più difficile comprendere, come una parte del popolo montenegrino possa vivere in quei distretti. — Devono la loro esistenza — mi spiegò il capitano — alla loro sobrietà spartana. Vivono un giorno intero con una patata. E ancora, felici quando l’hanno!... La sera era già inoltrata, l’aria frizzante e sull’orizzonte cominciavano a far capolino alcune nuvole minacciose. Il cocchiere, un bravissimo figlio di quei monti, ci avvertì che ci avrebbe colto il maltempo. Egli ne era abituato, ma la notizia mi scosse, anche perchè la vettura era aperta e nella mia fantasia turbinavano le idee più stravaganti della Montagna Nera e del suo popolo. Non ci voleva che l’uragano scoppiato da lì a pochi minuti, per completare i contorni spaventevoli d’una fantasmagoria montenegrina... Ad un tratto, il cielo s’oscurò totalmente, tanto che i cavalli, per proseguire, dovevano attendere il bagliore dei frequenti lampi. I tuoni, tra quei monti, sembravano detonazioni orribili di terremoti, il subisso universale del mondo: l’eco ne rimbombava in mille guise con urli frenetici, come se tutti quei monti precipitassero in un gigantesco baratro. E una pioggia dirottissima cadeva dal cielo, peggio che ai tempi di Noè. Figuratevi il mio stato d’animo ! Però, badate bene, v’ingannereste, pensando che io ne fossi spaventato. Non n’ero spaventato. Piuttosto, fattasi strada nel mio spirito una reazione, non pensavo punto ai pericoli d’un simile uragano, ma ammiravo l’orrido spettacolo della natura così inferocita. Non era il caso di raccomandarsi l’anima a Dio, ma di concen-