336 LA DALMAZIA Esisteva fin dall’epoca romana e si chiamava Buta. Oggidì, dopo secoli di fasti sotto il dominio veneto, è un paesello di circa 700 abitanti, con viuzze strette ed irregolari, senza monumenti. Funge da capoluogo morale di tutti quei distretti che si estendono dal mare ai confini montuosi del Montenegro. Cinta da vecchie mura, è protetta da una fortificazione costruita su nuda rupe. Era una vedetta di primo ordine non pure contro i pirati, ma contro le frequenti scorrerie dei montenegrini. Del resto, se la città non è pittoresca, lo è in sommo grado l’insenatura. Le rive salgono dolcemente verso i monti, tutte ricoperte di floridissima vegetazione. A nord, lo sfondo è formato dalle giogaie del distretto di Majni, e a sud-est, in mezzo alla baia, su rupe selvaggia, lo scoglio San Nicolò completa il quadro. Da Budua a San Stefano è un breve tratto. San Stefano è il centro d’una serie di fortificazioni lungo la costa su quel di Pastrovicchio, distretto oltremodo interessante per lo storico e l’etnografo. I pastrovicchiani sono un amalgama di montenegrino e di marinaio. Chiamiamoli « falchi marini ». Notai a San Stefano un grosso albero storico, dove, ai tempi della Serenissima, si tenevano i comizi e la giudicatura. Di là mi recai in barchetta a Castel Lastua, passando sotto la rupe romantica, da cui un’onesta fanciulla cristiana preferì precipitarsi nel mare e perire, anziché cedere alle brame di un pascià ottomano, comandante l’esercito invasore. La rupe porta tuttora il nome di Skocidjevojka (salto della ragazza) e poeti e novellisti ne fecero argomento di smaglianti creazioni letterarie. Il rapsoda nazionale glorifica quella vergine in un suo canto che i paesani non ascoltano mai senza singhiozzare. E il celebre novelliere, Stefano Ljubissa, le dedicò una delle sue più geniali novelle. La tragica leggenda commosse me pure, quando l’intesi raccontare da un popolano.