466 LA DALMAZIA — È a pranzo; ma entri pure, poiché lei è atteso. Mi introdusse nel vasto refettorio, tappezzato da ritratti di personaggi benemeriti della fede e del convento. Sedevano a tavola tre religiosi, una signora e un paesano. L’archimandrita, monsignore G-eroteo Kovacevich, una figura veneranda, affranto sventuratamente da acciacchi senili, mi accolse paternamente. Mi presentò ai due religiosi, alla signora, ch’era una sua nepote, indi mi invitò a pranzare. — Sono stanco — mi disse — causa le funzioni sacre pasquali; sono vecchio: ne ho 78 sulle spalle ed è tempo d’andarsene... Se non avessi questa buona e premurosa nepote... E voi, come avete viaggiato? — Bene, grazie: se non ci fossero stati i trabalzi e le scosse della strada... — Perchè avete presa la scorciatoia, lo so. E che impressione vi produsse il nostro convento? — Mestissima. Come mai potete dimorarvi? Ci manca l’aria!... — Meno male per questo, ma è un paraggio malsano. Pure, vedete, io vivo qui, con l’aiuto di Dio, dal 1850, e il nostro padre Neofito dal 1836. Non c’è stato caso di poter prosciugare il vicino palude. Ma, come si fa ad abbandonar un convento ch’ebbe tanti fasti nelle nostre cronache ecclesiastiche, principalmente durante le guerre turchesche? È un convento antico, ristaurato l’ultima volta nel 1402. Il venerando prelato ha per intercalare « anima mia » ed è piacevolissimo parlatore, serio, erudito, spirituale. Lo interrompono nella conversazione furiosi assalti di tosse. — Nei giorni di sagra, sapete, convengono qui fino a 400 fedeli; il convento è quasi una tradizione religiosa dei dintorni: conviene starci e tollerare la malaria... Dopo il pranzo, monsignore fece portare nella mia stanza