240 Là DALMAZIA In fondo alla via principale della città, domando dove si trovasse il celebre ponte in pietra, di Traiano. — È qui, scenda questi due gradini e lo vedrà. Scendo i due gradini, e mi si presenta quel ponte stupendo. Nulla di più poeticamente leggiadro in fatto di costruzioni. È tanto snello che sembra fatto con un soffio. Ha un solo arco, ardito, largo una trentina di metri, ed elevato dal livello dell’acqua, in estate, circa 25 metri. Non si crede che su d’esso siano passate tante falangi romane e orde turche, senza che abbia crollato. Doveva essere destinato, tutt’al più, al passaggio di bionde sultanine. Lo costruì Traiano, alla fine del primo secolo dell’èra volgare? Non è accertato. Ma ha tutti i connotati di un monumento molto antico e sommamente artistico. Alle sue basi scherzano idillicamente, tra macchie verdi, sorgenti d’acqua, formando cascatelle vaghe, capricciose, schiumeggianti. In verità, è un ponte sognato, il ponte delle fate. Mi allontano da lì ed entro in un caffè turco. Saluto rispettosamente i numerosi avventori quivi seduti su larghi scanni, con le gambe incrociate e l’immancabile eibuh in bocca. Intavolo con loro un discorso qualunque. Non so come si venne a parlare della Mecca. —• Anch’io — disse uno di loro — appartenevo al pellegrinaggio sventurato dell’anno scorso. Yi ricordate? Ritornavamo a bordo di un piroscafo inglese e, sospettando che tra noi fosse scoppiato il colèra, non ci vollero dar pratica in nessun porto. Abiarno fatto circa cento giorni di quarantena : gli ultimi trenta a Trieste. — Voi eravate tra quei pellegrini sospetti? — Io in persona: ritornavo appunto dalla Mecca. Come tutti i pellegrini, vedete, io pure ho diritto di portare intorno al fez il distintivo della fascia. Sono un hagija.