226 LA DALMAZIA plice casupola, dalla forma quadrata ed alta, con piccoli fori che vorrebbero essere finestre, e con una porta tanto bassa che, per entrarci, bisogna curvarsi. Sembra una kula, casa, o vedetta turca. Esteriormente è zeppa di antichità romane alla rinfusa, d’iscrizioni latine e greche, qualcuna capovolta, di fregi decorativi scavati evidentemente dal suolo dell’antica Narona. Un vero museo lapidario, insomma, una ex canonica rarissima per i suoi pregi storici ed archeologici. Mi avvicinai a quella casa con un senso profondo d’ammirazione, pensando che, senza le bizzarrie di quel sacerdote, tante antichità romane sarebbero tuttora sepolte nei sedimenti della vallata narentana. — Quando visse don Barissa? — chiesi al parroco. — Morì ottuagenario nel 1851, dopo di aver servito questo suo paese nativo, come parroco, per quarantanni. — E questa casa strana... — Egli se la costruì da sè, poiché, ad ore perdute, sapeva esser muratore, sarto, calzolaio, agricoltore, pescatore... Tutte le iscrizioni — mi raccontò poi il Bulic — vennero illustrate dal Mommsen nelle sue opere insigni. E fu fortuna che don Barissa non ne avesse murato il testo. Si comprende ch’egli intravedeva l’importanza di quella sua bizzarria archeologica. Ma doveva essere un uomo anche malizioso, perchè in certe iscrizioni, dove trovava fra due lettere un po’ di spazio, aggiungeva capricciosamente una lettera, una P o una 7?, imitando perfettamente le antiche, tanto da far ammattire, di primo acchito, gli archeologi. Il Mommsen e il Bulic, scoperto l’ingenuo inganno, ne risero di cuore. Intorno alla casa storica si aggiravano rozzi contadini, parenti di don Barissa. Chiesi a loro, se avessero qualche manoscritto di don Barissa. Alzarono le spalle con un’indifferenza omerica. Mi permisero però di visitare la casa.