Atto secondo 37 stivali di colore, in testa un berretto da ragazzo; il tutto molto logorato; sulla spalla un bastone al quale è attaccato un leggerissimo pastrano di lustrino e un fagottino avvolto in un fazzoletto di colore. È stanco, soffia pesantemente e si guarda attorno con un sorriso nè triste nè allegro. (Si incontrano) Sfortunato, (tetro). Arkaska! Fortunato. Si, io, Ghennàdij Demiànic. Son tutto qui. Sfortunato. Di dove e per dove? Fortunato. Da Vologdà a Kerc, Ghennàdij De-mjànic. E voi? Sfortunato. Da Kerc a Vologdà. Vai a piedi? Fortunato. Con i miei propri, Ghennàdij De-mjànic. (con un tono tra l’adulatorio e il canzonatorio). E voi, Ghennàdij Demjànic? Sfortunato, (con un basso cupo). In carrozza. (con calore) Come se non lo vedessi? Che bisogno c’è di domandare? Asino! Fortunato, (timidamente). Io, così... Sfortunato. Sediamoci, Arkadij ! Fortunato. Ma dove? Sfortunato, (mostrando il tronco). Io qui, e tu dove vuoi. (Si siede, si leva la valigia dalle spalle e se la mette accanto). Fortunato. Cos’è quello zaino che avete? Sfortunato. Una cosa magnifica. L’ho cucito io stesso per il viaggio, fratello mio. Leggero e capace.