e la Dalmazia, governata da un proconsole residente a Salona, rimane a far parte della compagine italica. Son questi, pur troppo, gli ultimi bagliori dello splendore salonitano. Grandi orde di barbari si affacciano dai valichi delle Alpi Dinariche agognando alle città della costa. Costantino Porfirogenito, e l’Arcidiacono Tommaso ci raccontano che prima del 626 d. C. imperando Eraclio, gli Avari s’impadroniscono della città, ne cacciano gli abitanti, la distruggono brutalmente. Nell’opera di rovina s’uniscono agli Avari i Croati, ferocissimi e selvaggi. E di Salona non resta che un’immensa distesa di ruderi smozzicati, di colonnati infranti, di cimiteri violati. Oggi, scavi fatti qua e là, senza un piano organico, riportano alla luce i resti degli edifici insigni, gli architravi, le lapidi, le colonne, le are, e tutto quello che non subì l’estremo disfacimento quando nel 1647 il Foscolo, provveditore della Repubblica di San Marco, vi si trincerò in mezzo, combattendo contro i turchi. Scavi non organici, abbiamo detto, e con ragione. Essendo la regione di Spalato in mano ai Croati che hanno la maggioranza numerica della popolazione, gli scavi sono compiuti da slavi. Costoro trascurano quindi, sistematicamente, tutto quello che può ricordare Roma e la sua grandezza, e ricercano i cimiteri cristiani dei primi secoli, dei quali Salona è doviziosa, con la speranza d’incontrare traccie di una loro presunta civiltà. Invano! gli scavi non rivelano che arche di dalmati romani, scoperchiate e forate dai croati invasori per rubare gli ori e le suppellettili funebri ai cadaveri ! Tav. LIX. Le origini di Spalato sono un resultato immediato della rovina di Salona, e, nel tempo stesso, la più fulgida prova della vitalità dell’elemento romano autoctono in Dalmazia, anche dopo le più spaventose catastrofi. Con la morte di Diocleziano, avvenuta nel 313, il grande palazzo imperiale era passato da un periodo d’estremo splendore a un periodo d’estrema decadenza. Malgrado però le depredazioni, le incurie, gli abbandoni, rimaneva saldo ed intatto nelle sue formidabili muraglie e nelle sue torri frequenti, che davano ad esso l'aspetto d’una vera fortezza. Le paurose leggende che il popolo vi aveva creato d’attorno, valevano a farlo rispettare anche dagli invasori. Pareva che la sorte Io avesse già consacrato al suo alto destino. Ci raccontano l’Arcidiacono, il Lucio ed il Farlati come i salonitani scampati al massacro nella città natia, si erano rifugiati nelle vicine isole di Brazza, di Solta e di Lesina. Ma l’amore per la loro terra li richiamava sulla costa abbandonata e a poco a poco, guidati da Severo, patrizio della distrutta Salona, vi tornarono e si ricoverarono nel palazzo Dioclezianeo. Quivi decisero che i più ricchi alzassero da se le loro dimore. I popolani, privi dei mezzi sufficienti a far ciò, dovevano installarsi nelle torri, e la plebe nelle 72