IÙ durevole del marmo, ond e scolpito il Leone simbolico, vigilante ancora dai monumenti dalmati, è l’affetto che sull’opposta sponda dell’Adriatico vive per la vecchia Repubblica di San Marco. Sul bel paese, che dal Quar-nero si distende sino alle Bocche di Cattaro, ed è chiuso tra l’Adriatico e le Alpi Dinariche, Venezia, erede di Roma, ha lasciato i segni della sua civiltà, con monumenti che il tempo non valse a distruggere, con tradizioni che non si perdono, col dolce linguaggio che serba la prodigiosa tenacia della sua fibra latina e resiste ancora alla forza barbara dello Slavo, del Turco, dell’Austriaco. Sin dagli inizi della sua vita, Venezia sente che la sua potenza e la sua gloria stanno nella supremazia dell’Adriatico e non bada a lotte e sacrifìci per conquistarla. Dalle sponde frastagliate di quel mare, fra isole e scogli quasi inaccessibili, partono a corseggiare i primi e più fieri nemici della Repubblica, i pirati, che occupavano quella parte della Dalmazia, dove scorre il fiume Narenta. Non altrimenti Roma aveva avuto lotte terribili con gli Illiri, insorti contro la conquista latina. Ma come Roma, così trionfò Venezia, e le vittorie del doge Pietro Orseolo II assicurarono dai pirati il commercio del mare e delle coste dalmate. L’Orseolo, che ebbe il titolo di duca della Dalmazia, istituiva la più sfolgorante e la più significativa delle feste Veneziane, lo Sposalizio del mare, per commemorare il giorno del-l’Ascensione dell’anno 1000, in cui il gran doge salpava con l’armata da Venezia, e con la fortuna delle armi e dei trattati preparava il dominio della Dalmazia. Ma quel dominio non vien raggiunto senza lunghi ed aspri contrasti. Guerre e trattati ad ogni po’ rinnovantisi coi re d’Ungheria e lotte contro le ribellioni degli stessi Dalmati. Così, nel 1202, Zara, 49