114 A. BESOZZI - V. A. MARTINI tenegrini 200.000, i bulgari 160.000, i krassovani gli sciokzi e i bunjevzi 150.000, i turchi 90.000, gli ebrei circa 90.000, gli slovacchi 80.000, gli ucraini, frammisti ad altri russi, 28.000, i polacchi 15.000, i greci 4.000, gli italiani 40.000. Questo strabiliante mosaico etnografico amalgamato a viva forza in una nazione vulcanica che il pugno di ferro di Belgrado stringe spietatamente, rappresenta il caos più assurdo che nessuna sapienza politica e nessun sistema di terrore riusciranno mai a fondere in armonica unificazione secondo i desideri ed i piani dei militaristi panserbi. E tanto più ardua e impossibile riesce la faticosa inutile impresa inquantochè le minoranze nazionali, avulse violentemente dai confini della loro unità geografica e politica, non hanno mai accettato il fatto compiuto con leggero spirito di rivolta e di insofferenza, agitandosi invece nelle forme più veementi. La votazione dello Statuto avvenuta il 28 giugno 1921 (anniversario della battaglia di Kossovo e del delitto di Serajevo) dimostrò più compiutamente la fragilità su cui poggia lo stato jugoslavo. Pasic vinse, è vero, riuscì a far votare la Costituzione che crismava ufficialmente l’idea della « grande Serbia », ma non è aifatto un mistero che le elezioni generali si svolsero con quei sistemi di tradizione balcanica, i quali si identificano nell’opera di violenza, di vandalismo, di terrore, di persecuzioni, di ostaggi. Ai montenegrini ed ai macedoni si proibì di portare candidati sostenitori di programmi nazionali. A tutte le popolazioni non slave si negò il diritto di voto. Con l’approvazione dello Statuto era chiaro che si doveva trovare