azione e appesantiscono la lettura. E Fautore non deve essere stato soddisfatto dell’opera sua, se in una seconda edizione volle anche seguire le ultime vicende della moglie di Demetrio. Così si accentuava l’ornamentazione polacca di questa russa e tragica « historia ». A drammatizzare la drammatica figura di Demetrio mirò Giuseppe Teodoli (Teoduli), detto anche Giovanni del Seminario Romano, il quale si era precedentemente cimentato in un dramma sacro su « Ermenegildo Martire » e in una favola tragicomica su « Ipsiocratea » (1). Ne scrisse la tragedia lì Demetrio Moscovita che, allora deve aver ottenuto un buon successo, se, pubblicata a Cesena, nel 1651, fu ripubblicata l’anno dopo a Bologna. La tragedia allora, tra forme vecchie e forme nuove, era proseguimento del teatro classico rinascimentale nello spirito e negli atteggiamenti, ma allargava il repertorio e, passando dal profano al sacro o viceversa, attingeva a fonti svariatissime : alla storia greca e romana o d’altre nazioni, a leggende cavalleresche, alla novellistica e... alla libera fantasia. Per il tipo particolare della tragedia « implessa » o « avviluppata », con mutamenti nello stato di personaggi e con ricognizioni, la figura complessa del Falso Demetrio si attagliava egregiamente. Una tragedia « autentica » era stata la sua vita, ci voleva poco a renderla tragedia « implessa ». Così non l’ha intesa il Teodoli, il quale ne ha fatto un dramma a tesi per dimostrare come il voler « unir la Greca a la Latina Chiesa » sia stata la causa della fine di Demetrio. Ma anche questa fine è tutt’altro che drammatica e, maturata fra incolori cospirazioni di corte, si risolve al di là della scena come si apprende dallo scialbo racconto dei congiurati. E tutto si svolge in scene a due, fra consiglieri di corte, ministri, generali e patriarchi che prolungano inutilmente l’azione senza nessuna « vis » drammatica. E sono Asterò, Dossiride, Alconte, Basmano, Basilio, Coralto, Arcomano ecc. — cui si accoppia in principio a mo’ di prologo, l’ombra di Boride (Boris) — che di russo hanno solo il nome e anche storpiato. E su tutto pesa il tono declamatorio, sentenzioso che tradisce l’artificio retorico e gronda di barocco. Resta sola l’esaltazione di Demetrio che per l’unione delle Chiese « da nuova morte » ebbe « vita immortale ». Lo zampino della Controriforma negli intenti e nel gusto è evidente! Grandi poemi ci saremmo aspettati su l’epica figura di Pietro il (1) Almeno così mi risulta da L. Allacci, Drammaturgia, Venezia, 1755. — 275