Fu a Venezia che le voci slave ed i modvi schiavoneschi diventarono i vezzi e i lezi della società letteraria. Era allora Venezia, potremmo dire, una Babele di idiomi per i contatti intensi che aveva soprattutto con le genti del Mediterraneo e fra Albanesi, Greci, Turchi e via dicendo, i Serbo-croati, affluiti d’ogni parte d’Adriatico e più in là, avevano certo la loro bella schiera di rappresentanti. E poeti dotti e verseggiatori popolari veneziani, i quali ambivano a infarcire la « len-gua » loro di « foresterie », avevano ben donde ispirarsi e scapricciarsi! L’appiglio a vari dialetti italiani ed anche a varie lingue straniere in uno stesso componimento ebbe in Andrea Calmo uno dei primi interpreti. Non largo, ma gustoso uso egli faceva di espressioni serbocroate, frammiste ad altrettante movenze veneziane, padovane, bolognesi, bergamasche, neogreche, albanesi ecc., in quelle rappresentazioni uniche che stanno fra la commedia classica e la commedia popolare e ritraggono pittorescamente la vita di piazza della cosmopolitica Venezia, con le sue folle, i suoi cicalecci, le sue avventure e le sue oscenità per gli intrighi di sfaccendati e di ribaldi (1). A questo vezzo ritorna, in minor misura, persino nelle Egloghe e, meno ancora, nelle Lettere. Ma sia qui che altrove il frastuono di tanti barbarismi ricopre e rincalza le une e le altre (2). L’Aretino, benché abbia perfezionato la sua maldicenza toscana a Venezia e si sia venezianizzato senza restrizioni e abbia avuto relazioni con gente d’oltre Adriatico (3) e non abbia posto freni alla sua versatilità e alla sua trivialità, nelle commedie è stato assai poco veneziano e, contrariamente a quanto si crede, non ha certo assecondato il manierismo gergale del Calmo. Nella poesia popolareggiante, invece, buffoni e cantambanchi se ne sono fatti belli sino all’esagerazione. Motivi « schiavoneschi » affiorarono nei più strani tipi di componimento e nelle più strane forme. (1) E più precisamente ne 11 Travaglia (Venezia, 1556), il cui Proculo, mercante raguseo, parla in italiano storpiato o forestiero e intercalato da singole espressioni serbo-croate, quali djavle, znas, ne\a stoji, ecc. In altre sue commedie e Egloghe affiora la « parlaura dalmatina », ma è italiana tutta. (2) Queste voci in parte sono segnate da V. Rossi, Le lettere di Messer Andrea Calmo, Torino, 1888, e da R. Schuciiardt, Slawo-deutsches und slawo-italienisches, Graz. 1885. (3) J. Torbarina, Aretinova pisma Dubrovcanima in Obzor, 31-1-1941. 152 —