Il giuramento della vendetta 95 « sto pane benedetto che rappresenta il Corpo di « Nostro Signore, per questo vino che rappresenta « il suo Sangue, per il sangue che abbiamo versato « nelle nostre vene e che deve aggiungersi a quello « della nostra fanciulla barbaramente assassinata, « ed ora elevata martire al Cielo e che ci prega di « essere i suoi vendicatori : noi padre, fratelli, cu-« gini della vittima, e noi tutti abitanti del villag-« gio, facciamo il giuramento più solenne ed irre-« vocabile di non dar più pace alla nostra anima, « alcun riposo al nostro corpo, fino a che il voto « della vittima innocente sia esaudito, e di non fer-« marci fino a che non avremo avuto una soddisfa-« zione completa, abbastanza crudele, capace di « compensare il delitto che i nostri nemici hanno « commesso ». Incominciavano allora i ratti, gli incendi e gli assassinii. E la guerra non poteva finire che con la pacificazione del sangue. L’aggressore doveva riconoscere il suo delitto e dichiararsene pentito e fare l’elogio della vittima. Allora si faceva la contabilità degli assassinii e si trattavano i compensi dovuti. Un capo, un prete, un padre di famiglia, contava per due. Ogni vittima umana era valutata a duecento pecore : una ferita grave a cento soltanto. Una volta regolati i compensi e pagato il dovuto, le due parti nemiche si giuravano amicizia, per San Giovanni se erano latini, e per Sant’Elia se ortodossi. Negli archivi di Venezia si trovano i processi verbali di un gran numero di codeste pacificazioni. Per una di tali karvarine nel distretto delle Bocche,