— 296 — abitanti delle Montagne sopra Scutari, i quali, sul finir della estate, discendono colle loro greggie e con tutto il bestiame, e durante l’intera stagione invernale dimorano nei terreni presso il mare dove trovano sufficiente pascolo. Ultimamente poi erano stati uccisi, dai detti Montanari, tre Mirditi, Questi allora decisero di prender sommaria vendetta di tutti quanti i sangui, che volevano ripetere, e calati d’improvviso, in numero di circa trecento, invasero le abitazioni dei Montanari, e derubando il bestiame e tutto quello che poterono trovare, incendiarono le capanne, e ritornarono al loro paese. Per buona sorte nessuna delle Persone perì, giacché, accortisi in tempo, poterono fuggire e salvarsi. I Montanari fecero tosto ricorso al Pascià di Scutari, implorando giustizia e totale risarcimento dei danni. Questa volta il Pascià, trovando il suo vantaggio, accolse favorevolmente tali querele: ma inutili riuscirono le pratiche di accomodamento fra le due parti, finché il Pascià stesso, già sicuro di un felice esito, raccolti alcuni battaglioni di soldati, entrò per la prima volta nel Territorio dei Mirditi, senza trovare alcuna resistenza, sia perchè erano disuniti fra loro, sia perchè i Capi erano già stati compri coll’oro. Avanzatisi i turchi fino ad Orosc, incentliarono il Palazzo del Principe, e dopo alcuni mesi si ritirarono del tutto, eleggendo, come già si disse di sopra, a Governatore Generale, in nome del Sultano, uno dei pretendenti, coadiuvato da altri impiegati nei varii villaggi, e stipendiati dal Governo Ottomano. Per coonestare poi e difendere tale impresa, il Pascià di Scutari accusò presso il Governo di Costantinopoli i Mirditi, come ribelli irrequieti, che molestavano e danneggiavano i sudditi fedeli di S. M. il Sultano. Non contento di tutto ciò, per odio contro la Religione ed i suoi Ministri, pensò, con aperta ingiustizia, di inventare orribili calunnie anche contro il Clero, quasi fossero i Sacerdoti i fautori di tali immaginarie sollevazioni contro l’imperiale Governo. Mosso da queste accuse il Sultano medesimo, con atto veramente lodevole, indirizzò al Papa una lettera di lamento in cui pregava Sua Santità di ammonire e correggere egli stesso i suoi Sacerdoti e fedeli, ed insieme dichiarava, che nel caso che le paterne correzioni di S. S. non ottenessero il bramato