— H24 — Ho fatto uccidere un capretto che questa sera mangiarono i dibràn colla famiglia di Zvmèr Palusci. Oggi dissi ad uno che stava senza far nulla : che cosa hai da fare oggi? — Nulla, mi rispose. — Vuoi lavorare per la cella che ti pago? — E che cosa debbo fare? — Portar calcina. — e quanto mi dai? — Tanto per karìz. — No; vengo a giornata. — Non ti voglio a giornata perchè non lavori e non ti guadagni nemmeno il sale; tanto al karìz e lavora molto o poco nessuno ti dirà nulla. — Ma io voglio granoturco e non denari, perchè sono senza pane io e la famiglia. — Ebbene ti darò tanto granoturco. — Dammelo subito. — No; prima lavora e poi te lo dò. — Ma io lo voglio subito per farlo macinare altrimenti oggi muoio di fame. — Mettiti a lavorare e te lo dò io macinato. — Ma io voglio mangiare adesso, perchè ho fame. — Se tu stai senza lavorare non mangeresti nemmeno questa sera; lavora un poco e poi ti do un’oka di farina; dopo mezzogiorno ti do il resto. — È' impossibile; se io non mangio non posso lavorare. — Ebbene prendi un pezzo di pane, mangialo, e comincia a lavorare, poi ti darò la farina. Ma io non ho con che portare. — Domanda in prestito una corba. — Non me la danno. — Domanda, cerca, ingegnati e la troverai. Mangiò il pane, andò a cercare la corba e alle dieci alla franca cominciava a portar calce. A un altro col quale ebbi un colloquio simile, dissi: Voi meritate proprio che il Signore vi lasci morir di fame perchè non c’è verso di farvi lavorare. — Mi rispose che più volentieri pativano la fame stando in ozio, che procurarsi il mangiare lavorando. Mi soggiunse: alcuni anni fa era in sangue; la fame m’avea fatto uno stecco, non avea più pancia. Un giorno mi tirarono alcune schioppettate, una mi sfiorò la pelle sulla pancia senza farmi male; se avessi mangiato bene c fossi stato grasso e pieno, m’avrebbe bucato la pancia. 18 giov. — Sono andato con un dibràn n’him t’Nout a liberar dalla terra che la ingombrava la fornace della calcina. Nemmeno la calce sanno far bene in queste montagne, e quindi anche per questo lato le fabbriche loro, cioè le loro kulle durano poco, cade la calce e si sciolgono i muri. Qui non si ha cura di fare il forno della calce entro terra in un pendio di monte o di colle, ma si fa dovunque e fuor di terra. Si fa un po’ di fossa e si empie di sassi neri; a fior di terra si comincia a mettere i sassi bianchi o calcari. Finito il mucchio, si circonda con una siepe o graticcio di vimini e tra questo e i sassi si empie di terra, poi si dà fuoco alla fornace e vi si lascia quattro giorni e quattro notti. Levato il fuoco si lascia la calce nella fornace più mesi e più anni, finché venga il bisogno di adope-