Cap. XIII — Le “ Rapsodìe „ 197 le opere del De Rada, era stato già pubblicato da lungo tempo il lavoro del Bopp, che gettava le basi della glottologia albanese e dipoi, tra gli altri, quelli dello Stier, del-l’Hahn, del Pott, del Fallmerayer, ed in Italia erano già comparsi scritti assai pregevoli e anche assai noti nelle colonie albanesi, dovuti al Masci, al Crispi, al Dorsa, e a Dora d’Istria. Ma il Jeno si tenne affatto estraneo a questi studi, e, discorrendone in questa prefazioncella con molta leggerezza, cadde in errori veramente grossolani. Secondo lui il popolo albanese è di razza semitica e la sua lingua, lungi dall’essere un dialetto illirico, discende dal tronco ebraico, come appare, dice lui con ingenuità veramente infantile, dalle famose parole scritte'sulle pareti della sala convivale di Baldassarre, mane, tedici, fares, che s’interpretano con la lingua albanese. Tanto è vero, che i peggiori giudici son quelli che giudicano ad orecchio! il. Il De Rada, in un’avvertenza che segue alla prefazione, dichiarava che codesti canti venivano messi in luce non solo per il loro valore letterario, ma anche, e sopratutto, per il sentimento nazionale, che vi spirava dentro; e confermava l’idea espressa dal Jeno e da lui stesso, alcuni anni prima nell’ Estetica, che cioè essi erano le reliquie di un poema nazionale, le cui origini doveva respingersi innanzi l’età di Skanderbeg (1). “ Essi apparivano, diceva, come parti intelligenti, nella quale si riefletteva la vita e il destino della nazione e giungeva perfino a derivare i canti popolari greci raccolti dal Fauriel dalle immagini e dalle invenzioni di queste Rapsodie. Come la tèsi di un’origine ebraica del popolo albanese era un errore colossale, così l’opinione che le rapsodie costituissero un vasto poema (1) Pr incipit (¡’Estetica, p. 41.