12 Introduzione pevole, sussulta nel bacino del proprio sangue, entro cui, come in lavacro lustrale, gavazza il grande assassino, commendator de’credenti. E di fronte all’Italia, nella latina terra di Trento e Trieste, e in quella della veneta Ragusa, un popolo, che odora ancora d’ispida barbarie, e cui è prodezza il numero ed è ragion l’offesa, sospinge con movimenti convulsi, connivente l’avido governo di Vienna, nel mare i nostri fratelli, i signori antichi di quelle terre italiche, magnanimi cavalieri della loro patria e della loro lingua immortale, che è la lingua di Dante. Ora la vecchia Europa, invece di sprigionare le scintille delle sue energie, che nelle magnanime imprese antiche tenevano accese le faci all’altar della gloria, nell’incivilimento de’ barbari continenti, ove l’uomo, dacché è nafo segue con moto eterno il suo ritmo di divorare l’uomo, si arrovella in un inane e infecondo pugilato di corpo e spirito contro le razze. Il panslavismo annasa a gozzo aperto il fratei cadavere e il pangermanismo s’intreccia col bizantinismo ellenico e col panamericanismo degli Stati U-niti nel disegno d’imperii, dove mai tramonti il sole. E i dritti naturali, piedistalli de’ popoli, in questa Europa incorreggibile, che gemette ognora per essi sotto le zampe ferrate de’ cavalli ondeggianti in marcia, sono calpestati e franti al cospetto delle genti, attonite e pavide, inchiodate al suolo e inerti, senza un atto comune di protesta, senza un generale e concorde movimento di resistenza, spesso senza neppure un colpo di spada! Cosi del popolo albanese. Lasciato solo, nel secolo XV, in un’epica lotta, nel ghigno degli spettatori e nell’indifferenza della cattolicità, che difendea, vinto, è riservato ora qual pingue bottino a concessionarii mercanti, che pagano il prezzo con la loro acquiescenza su altri turpi mercati, sorretti, in odio all’Italia, dal capo di quella cattolicità, che il popolo albanese nei primordi dell’ èra moderna, contendendo al suo nemico il passo all’Adriatico, vietò