334 L’Albania e l'opera di G. De Rada compiuto, contro cui si spezza qualsiasi ragione contraria e qualsiasi azione diplomatica. Possideo quia possideo. Pensare alle riforme in Turchia è da ingenui. Bisogna ignorare la storia antica e moderna dell’ Impero turco e dimenticare che le razze mongoliche son razze immobili per fare affidamento con essa sulla trasformazione dell’ Impero e su un rammodernamento parziale della sua amministrazione. Già se non un assurdo sarebbe un’opera ponderosa. È troppo abile il Governo ottomano per sollevare la questione delle riforme, che desterebbe un vespaio in tutto l’Impero. E del resto si ricorderebbe troppo amaramente delle riforme concesse alla Bulgaria e alla Rumelia, che poi, per effetto di esse, perdette. Quando si pensi che una costituzione concessa da venticinque anni, ancora non ha cominciato a funzionare, che i Giovani Turchi reclamano imperiosamente riforme e che le reclama l’Armenia, cui non furono concesse leggi liberali ma terribili massacri ; quando si ricordi che anche il trattato di Berlino le faceva un obbligo alle riforme, che ella diede, o meglio non diede, nel modo che tutti sanno, e finalmente quando si ricordi che le istanze delle ambasciate europee a Costantinopoli riuscirono sempre inani, si può fare qualche idea della buona fede del Fiàmuri e anche della Nazione Albanese, che chiedono, pregano, supplicano, scongiurano riforme. E poi i re sono così alieni dal concedere riforme che hanno sempre affrontato, anche col rischio di perdere corona e testa, ogni movimento in questo senso. E si va a cercare proprio in Turchia, tra la razza dei Mongoli, un così squisito sentimento di giustizia e una nozione così limpida del dritto delle genti ! La Porta non concederebbe mai riforme all’Albania, all’ Albania sopratutto, da cui non teme nè atti di ostilità, nè un serio movimento d’insurrezione. L'Albania deve chiedere salvezza a sè stessa e al suo patriottismo e conquistare la sua libertà e la sua indipen-