JÀNINA rugando le ciglia per tutto il tempo che resto là dentro. Ma gli altri, scalzi e seminudi, mi si affollano attorno. Ne distinguo le faccie a seconda che si voltano verso la luce dello spiraglio. Chi è calvo e senza ciglia, chi è cieco, chi ha sulla faccia gonfia escoriazioni sanguinose. Taluno più audace tende tra le guardie che mi circondano una mano per domandare un parà d’elemosina. Poi, riconoscendo al costume i cavàs d’un consolato europeo, qualcuno comincia a chiedermi con grandi gesti d’umiltà e di pietà d’occuparmi della sua grazia. La voce si propaga. Altri accorrono. A un punto ho intorno a me cinquanta vociferanti, chi mite e disperato, chi frenetico e folle, chi rauco ed iroso, che tendono verso me le mani implorando in lingue ignote la libertà. Sento, senza comprendere le loro parole, tutta la violenza con cui irrompe la speranza morta per tanti e tanti anni, le accuse, le difese, i piati, le minacce. Ma i soldati li respingono ed esciamo dal cancello. Anche fuori quel sordo tumulto s’è diffuso, romba come un tuono nei meandri tenebrosi. Al mio passaggio, tra le sbarre,