50 metteva a que’ che restavano, che sarebbero in breve istruiti nell’artiglieria di campagna, provveduti di treno, che allora mancava, e condotti poi fuori. La bella compagnia de’ bersaglieri civici era anch’essa mobilizzata. Le truppe di nuovo equipaggiate, i commissari di guerra sul luogo, pronti i carri delle bagaglie e delle ambulanze____s’attendeva d’ora in ora il comando di sortire dal generale in capo Guglielmo Pepe, il quale dovea operare d’accordo colle truppe piemontesi. Quand’ecco la guarnigione di Mestre, avuta appena la nuova della disfatta di Novara, farci arrivare lo strepito delle loro grida di gioia. Nella sera, colla banda musicale e con torcie si spinsero alla nostra vista dai loro avamposti. Il giorno appresso fu letta nel forte una lettera, che i Piemontesi erano entrati in Pavia; toccava a noi dare il ricambio delle grida di gioia e della musica... Ma ciò non valse che a farci cadere da più alto nell’avvilimento e nel dolore. Più tardi i sospiri, le imprecazioni, la tristezza erano immense e generali. Tutt’era perduto. A rialzare l’anima nostra, i volti nostri dimessi, che cosa si rendeva necessario? un partito che non ammettesse transazione, forte, risoluto, che avesse vigore di legge, che fosse ri-spettabile come il destino, a cui l’uomo abbandonandosi attendesse soltanto ai mezzi della difesa. E tale fu il decreto del 2 aprile dell’Assemblea di Venezia, tante volte poi confermato a prova della propria legittimità. Il miracolo che operò nella piazza di San Marco, allorché fu da Manin annunziato al popolo, si rinnovò anche a Marghera, e sino all’ultimo giorno che noi tenemmo quel forte durava rispettato l’affisso.