II - Nell’Albania Centrale 6 7 porta un uomo, col quale Salì scambiò breve discorso. Rientrando per dare le disposizioni opportune, mi squadrò in fretta da capo a piedi: giudicai che i franchi non dovevano capitare di frequente a Cudesi. Intanto io notava visi di donne bellissime alle graticciate di legno delle finestre, che nelle campagne albanesi sono spesso sprovvedute delle rispettive gelosie a quadrati minimi, e una certa agitazione nella casa. Salì sembrava non sentire le mie domande, ma dall’espressione del volto meno cupo del solito, capii che l’ospitalità gli era stata conceduta con tutti gli onori. Passò mezz’ora, poscia entrammo nel selamlik, semplice e quasi bujo, ma con molti tappeti nuovi, ad ognuno dei quali corrispondeva un grosso guanciale. Non v’era anima viva. Finalmente si presentò il padrone di casa senza aprir bocca; si assise di faccia a noi e dopo almeno due o tre minuti di pausa cominciò il saluto coi soliti « ben venuti » all’albanese e i selam alla turca. Quindi entrarono altri ed altri ancora nel medesimo modo del primo, finché nella stanza si formò un circolo di uomini seduti con le gambe incrocicchiate, fra i quali io doveva ben fare una singolare impressione coi miei abiti europei e malamente sdrajato. I discorsi, la fabbricazione e relativa scomparsa delle spagnolette e le tazze di caffè durarono senza interruzione fino all’ora del pranzo, servito a tarda sera abbondantissimo, omerico, cui io avrei però preferito pane e poca carne. Invece, per corrispondere da buon ospite, ero costretto, come meglio potevo, a imitare gli altri che divoravano, tutti naturalmente sulla stessa tavoletta circolare e bassa alla moda turca e in meno di che umanamente si possa dire, agnelli, formaggi, dolci, intingoli di nuovo genere che nel mio stomaco facevano effetto peggiore dell’olio di ricino. L’unico piatto turco che abbia in qualche modo cercato di accettare volentieri da quella sera in poi è la pietà, specie di dolce fatto con nissesté o farina fermentata. Non ho coraggio di ricordare la ciorba, qualità di minestra veramente stomachevole. Anche l’agnello all’albanese preparato nel modo comune non ha il buon gusto che generalmente si dice. Credo però superfluo dilungarmi nella narrazione di un pranzo albanese, sempre uguale nella casa del povero agà come in quella del ricco bei. Per me il pranzo di Sevaster significò la pena che mi era stata inflitta dal buon Dio per essermi avventurato allo studio della flora del Cudesi. La notte fui crudelmente torturato allo stomaco. Di fuori tuonava e pioveva dirotta-mente; di dentro cimici e pulci in abbondanza; ed io, infelice, non aveva avuto la precauzione di portare l’insetticida, senza del quale non si viaggia in alcuna regione balcanica. È fenomeno curioso, a proposito di insetti parassiti dell’uomo, che dall’Albania verso mezzogiorno fino in Creta si trovi diffusissima la cimice e al contrario più raro il pidocchio, mentre verso il nord questo è di gran lunga più comune dell’altra. Fortunatamente se io soffriva, anche il nostro bravo ospite non si volle tenere a me indietro; dal suo attiguo harem partivano lamentevoli conati di stomaco dei quali non è possibile dimenticarsi; seppi più tardi che l’indigestione lo aveva messo in pericolo di vita. Così io aveva una prima idea dell’ospitalità e dei costumi albanesi ai piedi del Cudesi.