CAPITOLO XIII. 479 a divorarne avidamente le viscere. Nulla di più triste dell’aspetto di quella città caduta sotto la dominazione straniera. La popolazione, ridutla a metà, oppressa dalla miseria; il commercio, fonte, altra volta, per lei di tanta ricchezza, passato fra le mani degli abitanti di Trieste, più favoriti dal padrone austriaco; i più superbi palazzi, abbandonali e cadenti; quello del doge, occupato da uno stupido e crudele arciduca; i cannoni, sempre pronti, sulla contigua piazza, a rappresentare il vincolo d’amore che univa il popolo col sovrano > impostogli dal trattato di Campo Formio, e confermatogli con quello di Vienna. E ciò, senza che nemmanco quel popolo desse il più piccolo indizio di ostili intenzioni. Imperocché, da lunga mano abituato alla schiavitù da una gelosa aristocrazia, s’era come spenta in lui ogni energia, e quasi si direbbe estinto il senso della libertà. Troppo spesso s’era fatto risuonare al di lui orecchio la parola obedisci; onde vi aveva già fallo il callo, e più non poteva risentirsene poi, per la sola ragione che gli veniva proferita in lingua tedesca. Gli stessi patrizii, da lungo tempo degenerati, avevan perduto nella corruzione l’istinto delle grandi cose, la coscienza di quella forza morale, che, in un momento di estremo pericolo, basta a salvare gli stali. Per il che, tranne qualche onorevole eccezione, furon visti tulli affollarsi a gara intorno al nuovo padrone, e sollecilarne vilmente i favori ; furon visti i discendenti di famiglie una volta sovrane, superbi di sfoggiare la loro chiave di ciambellano nelle anticamere del distruttore della patria. Ma uh popolo che, per secoli, era stato sì grande, non poteva rimanere lungo tempo fra le ombre di morte]: e quando l’Italia, finalmente, si ò desta, non lardò il