CAPITOLO III.
77
  Ecco come avvenne il fallo della congiura, per la quale l’islesso Doge fu condannalo all’eslremo supplicio.
  i\on era ancor compiulo l’anno dalla sua elezione, quando Michele Steno, imberbe patrizio e capo allora del Consiglio dei Quaranta, si pose a corteggiarne sfacciatamente la moglie che egli aveva avuto il torto di sposar troppo giovane (1). E per disgrazia, non era lo Steno di quei profondi e sinceri amatori che sanno lungamente nutrire una passione nel più ascoso santuario del core; e quando, per esuberanza d’alfetto, il secreto ai più oculati traspare, si fanno sacro dovere di salvar sempre le troppo dilicate convenienze della donna amala, e di non turbarne la domestica tranquillità.
  Ma lo Steno era di quella razza di indiscreti e vani damerini, che il nostro tempo distingue con un nome bestiale: Iristi, cui sembra eroismo il menar trionfo della debolezza muliebre, e che, inetti a provare un sentimento profondo, o per naturale incapacità, o per quella prostrazione di forze che deriva dall’abuso soverchio, sembra loro d’aver compiuto un’impresa gloriosa, quando, avvicinando una povera donna, l’hanno ben compromessa.
  Lo Steno adunque, adoperò le arti di seduzione più vili e più temerarie onde far fallire l’onesta moglie del Doge. E andò tant’oltre, che un giorno spinse l’audacia fino al punto di avvicinarsi ad essa in una publica festa da ballo, con degli atli di così soverchia dimestichezza, da offendere il pudore di qualsiasi più libera
   (1)	Non si sa sopra quali indizii alcuni fra gli istorici possano mettere indubbio se alla sposa od alla fantesca del Doge lo Steno facesse il bello; mentre dal complesso di tutte le circostanze risulta troppo chiara la verità.