CAPITOLO VII. 197 rebbe stalo follia il lenlarla, anzi solo l’immaginarla; od io me ne appello al giudizio, non dei Veneziani, ma degli uomini dolali di qualche buon senso, e domando se essa può essere nemmanco verosimile. Ond’io non ho parlalo di questo fatto che per essermi trovato nella necessità di descrivere l’odio che i Veneziani ci hanno giurato, e cerio quest’ultimo tratto non è dei più luminosi. Pure io non posso dispensarmi dall’ aggiungere come l'astio speciale eh’essi avevano contro di me, la facilità con cui essi si persuadellero che una tal fiaba potesse trovar qualche credilo, l’ansietà con la quale il popolo la accolse, lo zelo posto nel metterla intorno, mi obbligherebbero a stendere per iscritto una relazione contraria dei fatti, onde manifesta apparisse la mala fede di questi miserabili. — Loro non capilava mai alcun disastro senza che ne dessero a me tulla la colpa. Eppure io non saprei scorgere davvero come nell’esercizio del mio ministero abbia potuto provocare uno sdegno così atroce, benché mi trovassi presso un governo che faceva la guerra a un principe parente del mio signore, e che chiamava contro il suo nemico, non solo lulta la cristianità, ma eziandio gl’infedeli. Bisognava dunque che io me ne stessi spettatore indifferente di tulti i loro progetti? Il mio officio non m’imponeva forse dei sacri doveri ? Io son ben lungi dal pentirmi delle brighe che mi son dato per penetrare i loro disegni, e per isventare dei progetti che miravano ad abbassare la casa che ho l’onore di servire. Avvertito che io ero implicalo in così enorme trama, feci quanto era debito di un uomo innocente e geloso del poprio onore : all’indomani mi presentai in senato, attraversando pubblica-