CAPITOLO V. 107 almeno fin quando egli, scrivendo subito al proprio governo per metterlo al fallo delle cose, ne avesse ricevuto congrua risposta. E la risposta fu che la signoria veneta non poteva e non voleva revocare le leggi già sancite per il bene dei sudditi, pronta a sostenere, in qualsiasi modo, cotesta naturai libertà che Dio le aveva concesso, e che era stala, per tanti secoli, osservata. Intanto però, spedì in tulla fretta a Roma, con straordinaria missione, il pro-curator Leonardo Donato, uomo per età venerando e ben accetto alla corte pontifìcia, presso la quale sette volte s’era già recato come ambasciatore. Intendevano in tal modo i Veneziani dimostrare al papa, che se rie-sciva loro impossibile il sottomettersi interamente alla di lui volontà, ciò non derivava punto da mancanza di rispetto e di devozione verso la santa sede, o la di lui sacra persona. Tutto indarno; che anzi il pontefice, malgrado le savie rimostranze dei cardinali Baronio e Perron, spedì due Brevi contro la república che il Nuncio dovette presentare al senato proprio nel giorno solenne di Natale (1605). Se non che, in quella notte stessa, essendo morto il doge Grimani, quei Brevi non vennero disuggellali, perchè non sembrava opportuno l’intavolare una cosa di tanta importanza, finché non fosse dello il nuovo principe. Qui nacquero altri imbrogli; imperocché il papa, non ancor pago di quanto aveva già fatto contro Venezia, intimò al suo nuncio di opporsi vigorosamente all’ elezione del doge , dichiarando ai quarantuno elettori, che, ad ogni modo, essa sarebbe ritenuta nulla,