CAPITOLO II.
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di Giovanni da Procida e di Guglielmo Teli, per cingerne la ironie di Tiberio e di Aitila, ai nostri tempi beali, diceva, è venuto di moda l’asserire ed il ripetere che quanto fu detto di cupo e di tremendo sul conto del veneto governo, è stalo lutto un’esagerazione ed una favola; storielle da narrarsi ai bambini perchè tenessero presso di loro il luogo della befana (1). Privi dei documenti che tornerebbero necessarii, e non bastandoci quelli addotti dal Tiepolo in confutazione del Daru, noi accenneremo entrambi questi eccessi, e così 1’ officio nostro d’¡storico sarà compiuto: quindi c’ingegneremo anche di indirizzare il lettore sulla via di una ragionevole transazione fra gli estremi partili.
  Ecco, adunque, come si portavano i Dieci nelle loro procedure. Non appena avevano indizio, od anche solo un sospetto di delitto, facevano secretamente arrestare l’imputato, e rinchiudere in riposta prigione. 11 capo di settimana avviava il processo; ed ogni parola veniva scrupolosamente registrala da apposito scrittore, onde poter poscia comunicare il tutto ai colleglli ed averne il loro giudizio. — Poi la causa era portata in pieno Consiglio, dove i tre capi medesimi di concerto si ergevano accusatori, tenendo alla mano tutti gli allegati del processo.— Non si può dir nulla contro il costume di non
   (1) A questo proposito giova ricordare il generoso lamento che ne fece, già da oltre due anni, anche il Brofferio colle seguenti eloquentissime parole: « Per fede mia che i dotti sono talvolta più barbari dei barbari stessi. Vantansi ai dì nostri di avere scoperto che Giovanni da Procida non liberò la Sicilia, e che Guglielmo Teli non ha mai esistito. Bella scoperta in verità!... Il secolo che crea il vapore si compiace a distruggere il sentimento dell’umana grandezza. Vedremo qual guadagno sarà per farvi l’umanità!»