CAPITOLO X. 265 rimediarono i Dieci col rinchiudere costui in una camera e costringerlo a prestar giuramento che non ne avrebbe mai fatto parola con chicchessia, sotto pena della vita. Quando si venne alla deliberazione, s’alzò il Loredano e con imprudenti parole, mostrò la confusione che per debolezza del Doge, regnava, a sentir lui, nei consigli ed il cumulo degli affari non per anco sbrigali ; la licenza della gioventù, la negligenza dei magistrali e l’introduzione di novità pericolose. Tutto per colpa del capo dello Stato, inetto a metter freno agli uni, a diriger gli altri, a dar esempio a tutti ed a mantenere la forza delle leggi. Dal che voleva poi inferire che i veri padroni della república, i conservatori dello Stalo, i custodi delle leggi, eran essi i Dieci.— « Noi siamo senza capo, ed è indispensabile l’averlo. Chi fa il Doge siam noi; e noi siam pure in diritto di deporlo, quand’egli se ne sia reso incapace. La república intera reclama questa nostra risoluzione e la sorte dello Stalo è nelle vostre mani. » Ma gli altri non eran tutti dell’istesso parere, o per lo manco non dividevano con lui la sicurezza del modo con cui il popolo avrebbe sentilo e sopportalo un tanto fallo, e però avrebbero amalo meglio che il Doge slesso avesse pensato a cavarli da quell’impaccio, offerendo spontaneo la sua dimissione. La dignità dogale era dalle leggi dichiarala a vita e l’istoria non porgeva alcun esempio di principe deposlo se non per tumulto popolare. Del resto pare che in ogni caso non sarebbe mai toccalo ai Dieci, tribunale composto di così pochi individui, il revocare quanto aveva fatto il corpo sovrano della república. Tali considerazioni non valsero però nè a smuovere il Loredano dal suo malvagio proposito, nè a persuadere i