CAPITOLO V. editlo per proibire a tulli i sudditi di avere alcun rapporto con quei cittadini che, abiurando alla religione cattolica, s’ eran fatti protestanti. Il papa pretese che quell’editto fosse rivocato , per la ragione che niuna potestà secolare aveva il diritto di immischiarsi in materie di religione.—Se la pigliò, quindi, con Genova, perchè avesse pubblicati due decreti, l’uno per la revisione dei conlidi certi amministratori di conlra-ternite secolari, accusati di malversazione, l’altro per sopprimere certe assemblee presso i Gesuiti che minacciavano di divenire assai pericolose, mentre quegli esemplari fraticelli avevan nient’ allro che giuralo fra loro di non favorire nella nomina dei più cospicui impieghi se non i loro addetti. Ed il papa, a minacciare con Monitorii e scomuniche, finché i Genovesi, malgrado la grave importanza di quei loro decreti, furono costretti di abrogarli. Imbaldanzito per tali successi, Paolo V non ebbe più paura a rivolgersi ai Veneziani, ed a mover loro aspra querela per l’imprigionamento di un canonico di Vicenza che ei voleva fosse tosto rimesso al suo ì\micio , protestando che non avrebbe sofferto mai di vedere gli ecclesiastici giudicati da secolari, essendo ciò assolutamente contrario alle prescrizioni dei concilii. Si lamentò quindi col suo ambasciatore, il cavalier Nani, per due decreti che vietavano di erigere nuove chiese senza la permissione del senato, e l’alienazione dei beni secolari agli ecclesiastici. Esigeva il pontefice che tali decreti fossero aboliti sul momento. Se no, «uai a Venezia ! poiché egli era papa appunto per sostenero i diritti ecclesiastici; e sarebbe felicissimo di poter spar. St. i>el Cons. bei dieci—Voi. il. ,,