— 77 — rashi apparteneva alia famiglia dell’alfiere. Per sentimento di umanità sicuro che gli arrestati non avevano colpa, disse: «Lasciateli in libertà. La mia testa è garante per loro». Forse per dare una lezione alla valorosa Toplana, fu condannato a morte. Era povero. Aveva lasciato in casa ad un numerosa famiglia solo dieci oke di granturco. Mandò parola che le prendessero e dessero in dono alla statua di Sant’Antonio che si venera nella chiesa del suo luogo natio. Il che fu fatto. Babon-Celi fu separato dai suoi sventurati compagni due giorni prima dell’esecuzio-ne capitale. La notte antecedente alla impiccagione Mark-Milani, Zef-Delia e Marti-Marashi, per mezzo di una piccola leva, fatta loro pervenire in una pinza di pane, scassinarono la porta della carcere. Dal cortiletto di essa si arrampicarono sul tetto. Da qui saltarono sul coperto di una baracca e da questo nel suo cortile. Si sarebbero salvati da corte in corte, che qui sono tutte cinte di mura alte, se facendo il salto Zef-Deljia non fosse caduto sopra un vecchio aratro e non si fosse spezzata la spina dorsale. Da virtuosi albanesi avevansi data parola di non abbandonarsi a vicenda checché ne fosse successo. Per non frangere la promessa MarkMilani se lo caricò sul dorso e via per la strada, che mena alla moschea rossa. Colà stava l’acquedotto che va al Bazar. Il secondino accortosi della fuga aveva gettato l’allarme al corpo di guardia, che si era sparso per la città. In quel luogo ove la via si approssima allo stradone che viene da Paruza evvi un ponticello, che serve per passare il canale dell’acquedotto. Lì i fuggiti furono scorti dalle guardie. Zef-Deljia rimase a terra, Mark-Milani fu legato. Marti-Marashi approfittandosi delle tenebre, si gettò nel canale e tenendosi all’orlo del ponte si nascose sotto di esso. Zef-Deljia e Mark-Milani furono condotti in carcere e da qui subito al patibolo insieme a Babon-Celi. Marti-Marashi, fattosi perfetto silenzio, si estrasse da quel bagno d’inverno ed in mutande e camicia,