— 10 — zonatorio ». Però egli non era né un attaccabrighe, né un piagnucolone; studiava quanto bastava e non aveva quell’aria concentrata, né « quel segno del pensiero in fronte » che sembrerebbero indispensabili in una futura celebrità. Era piuttosto uni po’ selvatico, un po’ timido e ciò oltre che rispecchiare, forse, certi istanti di precoce tristezza, di precoce pensosità, serviva a mascherare que-gli intimi sentimenti di cui Cèchov era così geloso di fronte agli estranei. Colle persone a lui più care, e spesso anche coi semplici conoscenti, Cèchov fu invece, e allora e in seguito, straordinariamente espansivo e gli piaceva assai aver sempre ospiti, sia per quel senso d’amore che lo avvicinava alle altre creature, sia per quel senso di solitudine che lo afferrava sovente con angoscia e che egli stesso definisce così bene con queste semplici parole: « Quando sono solo, non so perché ho paura. » Il fratello Michele dice che, negli anni delle scuole medie, Antòn Pàvlovie era un ragazzo amante di divertirsi, di vivere: gli piaceva assai andare a pesca, a cac-ria, a cavallo, fare il buffone, rappresentare bozzetti comici, far la corte alle scolarette della sua età. Però accanto a questo desiderio, a questa gioia di vivere, che ci ricorda lo stato psicologico iniziale di tanti eroi tratteggiati poi dallo scrittore, e ci spiega il rimpianto che egli ebbe di questa vita bella, piena di gioie e di fede, quando il tarlo della ragione scavò il vuoto intorno a lui, Cèchov considerò fin d’allora con una profonda serietà la dignità umana e la vita. Al fratello Michele, che in una sua lettera dichiarava di sentirsi tanto piccolo, egli rispondeva così : « La tua