— 60 — « ad aggirarsi in un. mondo di morti e di putridume ». Lo Sestòv evidentemente non si accorge che creare e vivere non vanno intesi solo nel senso materiale e quindi non coincidono sempre con l’azione, il successo, l’affermazione gioiosa di vivere; egli non sente, perciò, quale profondo fermento di vita interiore e quale energia insonne e feconda sia anche in quella vana ricerca, in quella oscura sofferenza cechoviana, che, se non giungono all’azione, alla fede, le fanno angosciosamente amare e desiderare. Lo Sestòv non comprende che il « nulla » ce-choviano, che egli considera come « uno zero » è appunto il fermento dei veri eroi cechoviani, che vivono spiritualmente appunto per questa loro sofferta pessimistica negazione, e che, colla loro sofferenza riscattano luminosamente il loro preteso cinismo, il loro preteso mondo di materia e di putridume. Lo Sestòv (sotto la cui critica non so cosa diventerebbe il mondo leopardiano) non si accorge che accanto agli uomini meccanici di cui Cèchov si serve, non per bandire il verbo materialistico, ma per rappresentare il dramma che nasce dall’accettazione di questo verbo, c’è tutta una schiera di umili e doloranti creature, come zio Vànja, come le tre sorelle. I primi, gli uomini schiavi della vita pratica, sia che la subiscano inerti, sia che cerchino di dominarla col lavoro, coll’azione solo materialmente intesa, sono i vari Lopàchin della vita, privi di ogni ansia ideale, distruttori di meravigliosi giardini; sono i veri morti del suo grigio mondo.