— 36 — mare senza confini di una grigia e tirannica esistenza. Una delle più crude rappresentazioni di questa caduta, l’abbiamo nella novella intitolata Jònyc (1893) una delle ultime di Cècliov, in cui sembra concentrarsi tutta la desolata amarezza che l’autore sentiva nella forza ineluttabile della vita. Jònyc, medico provinciale, dalle idealità romantiche dei suoi anni giovani, in cui pieno di entusiasmo, di fede, di sogni, s’innamora di Caterina Ivànovna, s’abbandona poi, quando lei lo respinge, all’angustia della vita pratica, e diventa insensibile, grossolano. In quel gretto ambiente di provincia, egli non pensa più che a far quattrini, a vegetare, e tratta rudemente anche i suoi malati. Da tanto delicato che era, quando ora c’è una casa da vendere, egli subito se la vuole accaparrare, e, senza cerimonie, va in questa casa, e, entrando in tutte le camere, senza badare se ci sono donne e bambini semivestiti, che lo guardano stupiti e spaventati, batte su ogni porta col bastone e dice: «Qui il gabinetto? Qui la camera da letto? E qui che c’è? » Ma anche la sua antica fiamma, Caterina Ivànovna, che un tempo, tutta infatuata per l’arte, era andata al Conservatorio di Mosca e sognava di diventare una gran-de pianista, è rimasta una delle tante mediocrità e passa la sua vita agiata e borghese col padre e colla madre, altra sognatrice mancata, che ogni tanto affligge i suoi amici colla lettura di qualche suo parto letterario. Caterina Ivànovna « suona ogni giorno il pianoforte per un quattr’ore. E’ visibilmente invecchiata, ha ogni tanto qualche acciacco e ogni autunno se ne va colla madre