— 52 — e di speranza che distruggerebbe così, secondo alcuni, la pessimistica visione dello scrittore. Ma — ahimè! — com’è angosciato il cuore, quando sembra incantarsi nella contemplazione di questa felicità futura e come si piega la volontà, quando questo illusorio grido di fede, aspetterebbe la gioia dell’azione! Di fronte all’in-calzare della vita di tutti i giorni, di fronte allo scoraggiamento che sopravviene di nuovo, lento, implacabile, quel mondo di felicità appare lontano e irraggiungibile come l’ala di un uccello veduto attraverso le sbarre di una prigione : non c’è che lo sguardo che lo segua con disperata nostalgia. Possiamo anche ammettere che, specialmente nella sua giovinezza, Cèchov, preso dall’infatuazione dei contemporanei per le teorie progressiste e umanitarie, credesse in un immancabile progresso dell’umanità, come appare da quella lettera del 1894 in cui dice: «Fin dall’infanzia ho creduto nel progresso e non potevo non crederci, giacché la differenza tra il tempo in cui mi battevano e quello in cui cessarono di battermi, era enorme... » ma è pur vero che nel mondo artistico di Cèchov (ed è questo che c’interessa) l’invocazione di questa felicità futura (fra due, trecento anni) torna con tutt’altro significato. Essa diventa come un monotono e triste ritornello che echeggia come certe musiche dell’infanzia, che, entrate nei-orecchio e nel cuore, ci sono troppo care per poterle dimenticare. Questo ideale progressista, in cui, a poco a poco, la ragione si sforza soltanto di credere, ritorna come un’idea fissa, ma astratta, lontana e con-tradittoria colla vita che in nulla è mutata, che in