— 55 — non solo è possibile la contradizione, ma, con buona pace di qualche critico filosofo, è proprio in ciò la loro logica, quando, come in questo caso, dalla contradizione balzi la ferrea coerenza di un dramma. La ragione dimostra che tutto è vuoto e senza scopo, ma il sentimento anche se non riesce a distruggere questa desolante convinzione, vorrebbe non doverci credere e tenta rifugiarsi nell’inganno di qualche tenue larva. L’anima non è immortale, tutto finirà colla morte; ma è possibile che anche la nostra più bruciante realtà, la nostra sofferenza d’oggi, cada nell’abisso del nulla, che tutto ingoia e sommerge? Il cuore si ribella a questa paurosa verità e, se i cieli sono deserti, ecco l’ansia dell’eterno creare una fittizia sopravvivenza umana: il nostro dolore d’oggi sarà forse il germe fecondatore di una futura felicità che, si realizzi o no, serve almeno a cullare per un istante il bisogno di veder proiettato nell’avvenire il proprio, oscuro sacrificio. Questa, che definirei come una speranza disperata, è uno dei toni più delicati e più schiettamente cechoviani. Però, nonostante il crollo di una vera fede e i pratici fallimenti, gli eroi cechoviani sono degli infelici ma ardenti cercatori. Ho ricordato poco fa le parole di Màia, che fanno sentire la necessità di avere, o, almeno, di cercare una fede; ma potrei citare altri esempi da cui appare evidente come, di tanto in tanto, si riaffacciasse in Cèchov, sia pure come una transitoria ribellione sentimentale, soffocata subito dopo dall’implacabile ragione, il tormentoso problema della morte e dell’immortalità.