— 50 — ogni legame colla realtà stessa, rifugiandosi nei regni della pazzia, dove l’anima in balia dei suoi sogni può creare quella illusoria armonia, che non ha potuto raggiungere nella vita comune degli uomini. Del resto per Cèchov il trapasso non è poi tanto grande, giacché, tolto alla vita ogni significato e ogni scopo, essa finisce col diventare incomprensibile e paurosa, come il mondo irreale dei fantasmi. Lo dice Dmìtrij Petròvic Sìlin nella novella intitolata Paura, in cui vediamo il nostro mondo reale perdere ogni consistenza di verità e di certezza. Così siamo già alle soglie di quel mondo della pazzia che al dottore Andrèj Jefìmic (1) (deluso nella sua unica fede: quella per la scienza) apparirà come il solo rifugio; e che per Kovrin, il protagonista del Monaco Nero (1894) assumerà addirittura i colori di una bella e consolante illusione: l’unica capace di liberarci dal tragico quotidiano delle piccole cose senza senso e senza scopo; l’unica che possa illuminare perfino il trapasso nel buio regno della morte, del nulla. Kovrin, dopo una lunga lotta tra il mondo reale e quello irreale, s’abbandona completamente al fantasma del Monaco Nero; e, quando muore, il suo volto è soffuso di un beato sorriso. Siamo giunti così all’estremo dei miraggi cechoviani; ma, qui, Kovrin, che è un pazzo, è già un essere felice perché crede nella sua illusione. Invece questa forza buona dell’illusione, non illumina gli altri eroi cechoviani, che restano nel mondo degli uomini; e ciò perché (1) In La camera N. 6 • 1892.